Papa e fedeli - Avignone - Palazzo dei Papi

 

L’EUROPA

 VERSO LA FINE DEL MEDIOEVO

 

MICHELE DUCAS PUGLIA

 

PARTE  TERZA

 

SOMMARIO: IL PAPATO: IL GRANDE E PICCOLO SCISMA; IL MOVIMENTO CONCILIARE: MARSILIO DA PADOVA E GUGLIELMO DI OCKHAM; I CONCILI DI PISA E BASILEA; “VARNA” LA CROCIATA SENZA SPERANZA; FRA’ GEROLAMO SAVONAROLA: LA PREDICAZIONE; IL POLITICO; IL BRUCIAMENTO DELLE VANITA’; IL CONTRASTO COL PAPA;VERSO LA FINE.

 

 

IL PAPATO

IL GRANDE E PICCOLO SCISMA

 

 

L

o Stato pontificio, come abbiamo visto (Articoli: I mille anni dell’ impero bizantino, in Cap. VI) territorialmente si era formato nell’VIII sec., dall’abbandono dei territori bizantini ed era costituito dai territori del Lazio, Toscana (Tuscia), Marche, Esarcato di Ravenna e Pentapoli (le cinque città dipendenti dall’esarcato Rimini, Pesaro, Fano Senigallia e Ancona).

Nel XIV sec. la Chiesa si era trovata ad affrontare un periodo di  degenerazione, iniziata con la morte del papa Bonifacio VIII (1303, v. P. II, par. La Francia).

La Francia con la politica senza scrupoli e di avidità di Filippo IV, attraversava un periodo di ricchezza e di potere della monarchia, essendo Filippo riuscito a respingere l’autorità concorrente della Chiesa.

Abbiamo visto come Filippo IV aveva convinto il papa clemente v (1305-1314) a recarsi in Francia per la cerimonia dell’incoronazione (1305) e gli eventi vollero che Clemente vi rimanesse subendo in qualche modo la sua influenza, almeno per quanto aveva riguardato la fine dei Templari. e da questo momento ebbe inizio quello che viene chiamato scisma d’occidente, il grande: 1305-1376  (il piccolo scisma  sarà quello della contemporanea elezione di due papi v. sotto), con i  papi che rimasero legati alla sede di Avignone. Il trasferimento era stato considerato scandaloso e aveva suscitato indignazione nel resto dell’Europa, sia perché con la sede ad Avignone era stato  preconizzata l’ifluenza francese  sulla nomina dei papi (come avvenne: i papi eletti erano tutti francesi (1)), sia perché il numero dei cardinali francesi era divenuto preponderante: su un Sacro collegio di 134 cardinali, 113 erano francesi.

Per altri versi, Clemente V aveva mostrato una spiccata autonomia di fronte alla monarchia francese, nell’appoggiare la nomina imperiale per Enrico del Lussemburgo, contro la candidatura di Carlo di Valois voluta da Filippo, e spiccata personalità nell’usare l’arma della  scomunica: aveva scomunicato i veneziani che avevano tentato di impadronirsi di Ferrara alla morte di Azzo d’Este (1308).

A Clemente V si deve la fondazione delle Università di Orleans e Perugia ed il regolamento degli statuti della facoltà di medicina di Montpellier; l’istituzione delle cattedre di lingue orientali a Parigi, Oxford, Bologna e Salamanca; l’autorizzazione alla dissezione dei cadaveri per scopi scientifici (v. in Articoli: Carlo V ecc., P.I, par. Vesalio), l’aggiunta del VII libro del Corpus Juris Canonici (che va sotto il nome di Clementine).

Avignone in questo periodo diventa un centro finanziario contribuendo all’ arricchimento del tesoro pontificio. Nelle sale del castello papale, il denaro della corruzione proveniente da tutte le parti dell’Europa, si contava a mucchi.

Infatti, le innumerevoli imposte che gravavano sulla gerarchia ecclesiastica, sui monasteri e parrocchie, facevano affluire ad Avignone questo denaro che riempiva i forzieri. Ciascun funzionario, nel  primo anno in cui gli veniva assegnata la carica, doveva rimettere alla curia la metà del suo reddito (poi trasformato nella decima parte: decima).

I nuovi arcivescovi, al momento della consegna del “pallio” (l’emblema della loro carica costituito da una fascia di lana bianca), dovevano versare al papa una cospicua somma di denaro. Alla morte di ogni arcivescovo, vescovo o abate, i beni da questi amministrati con i relativi proventi, ritornavano alla chiesa, che per questo motivo era portata a ritardare le nuove nomine.

Ogni richiesta fatta al papa presupponeva una decisione o una risposta ed era accompagnata da donativi, in quanto decisioni e risposte erano in funzione della loro consistenza. (in Inghilterra, Edoardo III (1312-1377) ricordaderà a Clemente VI che “il successore degli Apostoli era stato incaricato di condurre il gregge, non di tosare le pecore”).

Abbiamo visto come Wycliffe si fosse scagliato contro il potere della Chiesa, e Guglielmo di Ockam  con Marsilio da Padova (v. sotto), proprio per questi motivi, avevano posto le basi del movimento conciliare.

In Germania gli Elettori respinsero ogni ulteriore intrusione dei papi nell’elezione dell’imperatore. Nel 1372 gli abati di Colonia dichiararono pubblicamente che la Chiesa apostolica era caduta in tale vergogna che la fede ne era gravemente minacciata. Il clero di molte città s’impegnò con giuramento a non pagare la decima imposta da Gregorio XI.

A Roma, la Chiesa era in grave crisi, e la città, come abbiamo visto con Cola di Rienzo (1347-54), in P. II), era in stato di anarchia. Tutti i possedimenti del Lazio, Umbria. Marche e Romagna, avevano ripreso la loro autonomia e i tiranni che detenevano il potere, pur tributando una formale obbedienza al papa, trattenevano tutti i tributi, dissanguando le popolazioni.

A Milano il feroce Bernabò Visconti si era appropriòato di tutti i beni della Chiesa,  costringendo i legati papali che gli portavano la scomunica (1362), a mangiare la pergamena delle bolle, comprese le cordicelle e il piombo dei sigilli.

In Italia era stato mandato (1319) il cardinale Bertrando del Poggetto per mettere ordine ma quando era ripartito (1334) le cose erano tornate come prima. Era stato seguito dal cardinale Egidio Albornoz, inviato da innocenzo vi (1352-1362), il quale aveva promulgato il “Liber constitutionum sanctae matris ecclesiae  dette anche “Constitutiones Aegidianae” con cui unificava tutte le leggi dello Stato della Chiesa, rimettendo ordine a Roma, sì che papa U urbano v (1362-1370), che era stato il migliore dei papi avignonesi e aveva cercato di reprimere gli abusi e il lusso, riportava la sede a Roma (1367). Morto però l’Albornoz, la situazione ritornava ad essere quella di prima e il papa si vedeva costretto a tornare ad Avignone.

A Firenze furono confiscate tutte le proprietà della Chiesa (1376), chiuse le corti episcopali, demoliti gli edifici dell’Inquisizione, imprigionati e impiccati i preti che si ribellavano e l’Italia fu invitata ad abbattere l’intero potere temporale della Chiesa.

Sarà gregorio xi (1370-1378) a lasciare Avignone e partire per Roma nel 1376 dove morirà nel 1378, senza essere riuscito a metter fine all’anarchia. Gregorio XI, per mettere ordine aveva mandato in Italia il cardinale Roberto di Ginevra, e costui usando il pugno di ferro si era macchiato di stragi e del saccheggio di Cesena (1377).

In mezzo a quest’anarchia, con il Vaticano circondato da bande armate e in mezzo al frastuono di campane e di popolo che voleva un papa romano, fu eletto papa (1378), il cardinale Bartolomeo Prignano arcivescovo di Bari, che per sottolineare la sua “romanità”, aveva preso il nome di urbano vi (1378-1389) . 

Con questa elezione si verifica il piccolo scisma, che, fino al 1417 porterà la lacerazione all’interno del mondo cristiano. Lo scisma fu determinato dalla contemporanea elezione di due papi.

L’elezione di Urbano VI non fu accettata dai cardinali francesi, appoggiati del loro re, Carlo VI, e da quei cardinali che non erano d’accordo con lui sulle riforme che egli voleva introdurre con energia nel sacro collegio e per eliminare la corruzione dal sistema  finanziario della Chiesa, i quali dichiararono nulla l’elezione.

Il 20 settembre essi si riunirono a Fondi ed elessero papa il vescovo di Thérouanne, Roberto di Ginevra, che per sottolineare la continuità con i papi di Avignone, prese il nome di C clemente vii (1378-1394) e si trasferì ad Avignone.

Egli, non diede bella prova di sé. Conduceva una vita mondana e dispendiosa che gli fece perdere credito. Ebbe così inizio il processo di riaccostamento al papato di Roma. Urbano VI invece rimase a Roma e il mondo cristiano si divise a metà: una parte, costituita dalla Francia e dagli Stati che le gravitavano intorno, Napoli con la regina Giovanna che era feudataria della Provenza con Avignone, Castiglia, Aragona e Scozia, sosteneva Clemente VII; l’altra con l’imperatore Carlo IV che per tradizione non poteva che essere legato a Roma, con Germania, Fiandre, Polonia, Boemia, Ungheria (in quanto il re ungherese era nemico di Giovanna di Napoli), con gli altri stati italiani e il Portogallo, sosteneva Urbano VI.

Ciascuna delle due parti considerava l’altra scomunicata, blasfema,  con battezzati, sposati e moribondi, considerati in stato di peccato mortale perché i sacramenti erano stati somministrati dai rispettivi ecclesiastici scomunicati.

Le due corti papali, trovandosi di fronte ad entrate dimezzate, non fecero altro che incrementare ciascuna i propri introiti aumentando i balzelli, per cui simonia, nepotismo e favoritismi aumentarono a dismisura. 

Quando Urbano VI morì (1389), i quattordici cardinali rimasti a Roma continuarono ad eleggere i papi che si avvicendarono con: bonifacio ix (1389-1404),  innocenzo vii (1404-1406) e gregorio xii (1406-dep.1415).

Ad Avignone, morto Clemente VII (1394), fu eletto un papa spagnolo (Pietro de Luna)  che prese il nome di  B pbenedetto xiii (1394-1424), il quale si dimostrò propenso ad abbandonare il soglio papale se Gregorio XII avesse fatto altrettanto.

Alcuni cardinali fedeli a Gregorio XII lo abbandonarono, chiedendo un concilio generale, mentre il re di Francia minacciava il papa Benedetto, invitandolo a ritirarsi. Benedetto XIII se ne fuggì in Spagna. I suoi cardinali, riunitisi a quelli che avevano abbandonato Gregorio XII, decisero per un concilio da tenersi a pisa, per eleggere un papa unico e gradito a tutti., ma questo servì solo a complicare ulteriormente la situazione

 

1)  Clemente V (Bertrand de Goth 1305-1314) ); Giovanni XXII (Jaques d’Eux 1316-1334); Benedetto XII (Jaque Fournier 1334-1342); Clemente VI (Pierre Roger, 1342-1352); Innocenzo VI (Stephan Aubert 1352-1362); Urbano V (Guillaume de Grimoard, 1362-1370); Gregorio XI (Pierre-Roger de Beaufort, 1370-1378).

 

 

IL MOVIMENTO CONCILIARE:

MARSILIO DA PADOVA

 E GUGLIELMO DI OCKHAM

 

D

iversi filosofi e teologi da lungo tempo si erano dichiarati per un movimento conciliare, per contrastare l’identificazione della Chiesa con il suo clero. Tra costoro si levarono le voci di Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham.

marsilio da padova (1280 c.a-1343), con una cultura scientifica (aveva studiato scienza naturale e si era addottorato in medicina), aveva insegnato teologia a Parigi.

Marsilio, che si era occupato di politica e della materia ecclesiastica, distingueva una legge umana ed una divina il cui giudice poteva essere solo Cristo. Egli fu il primo a sostenere l’origine naturale dello Stato contro l’idea medievale dell’origine divina dell’Impero, con la conseguenza della subordinazione della Chiesa allo Stato.

La Chiesa, alla quale spetta solo il magistero evangelico, sosteneva, non può esercitare sulla terra un potere coercitivo che sarebbe in contraddizione con l’insegnamento di Cristo. Marsilio abbatteva in questo modo la concezione delle immunità e dei privilegi ecclesiastici, ridimensionando la Chiesa a un corpo di gerarchia e di potere.

Marsilio negava quindi il primato del pontefice spogliandolo del potere dell’autorità divina. Egli negava anche che vi fosse una qualsiasi differenza tra l’autorità del papa e i singoli vescovi che, come i preti, sono eletti dal popolo per amministrare i sacramenti ed esercitare il ministero delle sacre scritture.

Marsilio sottoponeva inoltre l’autorità del papa a un concilio generale che rappresentava la summa della saggezza della cristianità e il supremo potere ecclesiastico.

Al concilio al quale avrebbero dovuto partecipare oltre agli ecclsiastici, anche rappresentanti laici scelti  dal popolo, sarebbe spettata anche ogni decisione relativa alla disciplina dei costumi e alla interpretazione della verità della fede e sulla definizione dell’eresia.

In ogni caso, al concilio non spettava alcun potere coercitivo, in quanto, sosteneva, in materia di fede questa non può subire coartazioni, né può imporre alcuna verità o una legge cristiana, che può avere una sua validità solo se accettata liberamente. Naturalmente fu considerato eretico dalla Chiesa che non lo processò solo perché nel frattempo moriva di una morte avvolta nel mistero.

guglielmo di ockam (1290 c.a-1350), francescano, aveva legittimato la deposizione di Giovanni XXII, sostenendo i diritti dell’impero nei confronti del papato. Egli riteneva che l’autorità dell’impero derivasse dalla volontà del popolo romano, passata poi ai greci-bizantini, ai franchi ed ai tedeschi. Essa era quindi storicamente precedente all’autorità del papa.

Ockam riteneva che l’autorità dell’imperatore (Ludovico il Bavaro) fosse superiore a quella del papa che era sì, nominato dai cardinali, ma l’imperatore poteva intervenire nella sua elezione avendo anche la possibilità di dichiararlo eretico, e, ove si fosse reso necessario, deporlo e sostituirlo.

Quanto all’autorità suprema della Chiesa, Ockham riteneva che essa non risiedesse nella persona del pontefice, ma nell’assemblea conciliare e che la Chiesa era costituita dall’insieme di tutti i fedeli, la cui autorità era superiore ad ogni altra autorità e delegata ad un concilio generale costituito da vescovi e abati. Questo concilio avrebbe avuto il potere di eleggere, biasimare, punire e deporre il papa.

Le idee di Ockham, diffuse nelle università germaniche, ebbero influsso sui teologi cattolici, tra i quali Lutero, e il movimento conciliare diede i suoi frutti perché di concili ne furono convocati quattro.

 

I CONCILI DI

PISA, COSTANZA,

BASILEA E FIRENZE

 

 

I

l primo fu il concilio di pisa (1409) - con una novità inaudita - fu indetto dai soli cardinali. I due papi, Benedetto XIII e Gregorio XII che protestarono, furono invitati a presentarsi, ma nessuno dei due si presentò. Il Concilio li dichiarò scismatici ed eretici  e deponendo entrambi eleggeva un terzo papa, il vegliardo e umile settantenne Pietro Filargo (Pètro Philargès), non francese né italiano ma nato  nell’isola di Candia sotto la dominazione di Venezia che prese il nome di  alessandro v (1340-1410).

Conduceva vita misera tanto che il pontificato sembrava riportato alle origini del cristianesimo. Di se stesso soleva dire: “da vescovo ero ricco, da cardinale ero povero, da papa sono un mendicante”. Si impegnò a convocare un altro Concilio entro il 1412. Il concilio di pisa  che comunque si chiuse con tre papi invece di due.

Alessandro V moriva (1410) e fu designato il cardinale Baldassarre Cossa che prese il nome di giovanni xxiii (1410-1415). Era stato vicario del papa a Bologna, dove aveva governato come guerriero e stupratore, più che come ecclesiastico: da giovane aveva fatto anche il pirata. Oltre ad aver stuprato (si diceva, con l’aiuto del suo segretario) duecento donne tra vergini, monache e vedove, aveva imposto qualsiasi genere di balzelli, anche sulla prostituzione, gioco d’azzardo e usura.

Giovanni XXIII a seguito delle numerose e pressanti richieste di convocare un Concilio, lo convocò a Roma (1412), ma questo non si potette tenere a causa dell’invasione della città da parte di Ladislao d’Angiò, re Napoli (scomunicato da Alessandro V).

Il nuovo Concilio si tenne a costanza (1414), che si poteva considerare il più importante, dopo il Concilio di Nicea (325), e fu una specie di avvenimento mondano dell’epoca.

Vi convennero oltre a cardinali (29), arcivescovi (33) vescovi (150) e preti (4000), patriarchi e teologi (300); da Mosca giunse il metropolita di Kiev e una delegazione giunse da Bisanzio (per sollecitare l’unione delle chiese); principi e nobili, ministri, ambasciatori, delegati d’Università (14) con tutti i loro seguiti. A Natale giunse anche l’imperatore Sigismondo d’Ungheria, l’anima del Concilio, da poco incoronato ad Aquisgrana re dei romani (in quel periodo, nell’omonimo lago affogarono ben cinquecento persone).

La decisione del Concilio fu grandiosa e rivoluzionaria: dopo tre anni di trattative mise fine allo scisma ma non potè realizzare la parte   relativa alla “unione (con la Chiesa ortodossa) e riforma della Chiesa” che furono rinviate.

Il Concilio stabiliva quindi, che il sinodo rappresentava la Chiesa militante, che riceveva la sua autorità direttamente da Cristo; tutti, a qualsiasi rango appartenessero, papa compreso, dovevano la loro obbedienza alle decisioni del Concilio in materia di fede, per la fine dello scisma e per una generale riforma della Chiesa, nel suo capo e nelle sue membra; dichiarava che se qualcuno, compreso il papa, avesse rifiutato obbedienza alle sue decisioni, avrebbe ricevuto la giusta punizione, e, se necessario, la punizione sarebbe stata ottenuta con gli ordinari mezzi della giustizia.

Il Concilio aveva preteso l’abdicazione dei tre papi, Gregorio XII, Benedetto XIII e Giovanni XXIII. Quest’ultimo che aveva promesso di abdicare, pensò bene di fuggire travestito da contadino andando a mettersi sotto la protezione di Federico d’Austria a Sciaffusa, da dove ritrattò la promessa. Il Concilio colse l’occasione di contestargli ben cinquantaquattro imputazioni tra le quali quelle di pagano, oppressore, mentitore, simoniaco, traditore, dissoluto e ladro, ma sedici di queste imputazioni furono eliminate perché troppo gravi, e  quindi fu deposto.

Gregorio XII chiese gli fosse concesso, prima di ritirarsi, di convocare un proprio concilio sotto la propria autorità. Questo concilio accettò la sua rinuncia.

Benedetto XIII, che aveva rifiutato di ritirarsi fu dichiarato scismatico ed eretico e fu deposto. Si ritirò a Valencia dove morì a novant’anni, considerandosi ancora papa.

Una commissione di cardinali elesse il nuovo papa nella persona di Ottone Colonna, unico papa della potente famiglia ghibellina, che prese il nome di martino v (1417-1431), riconosciuto da tutta la cristianità. La sua incoronazione ebbe luogo a Costanza con una grandiosità incomparabile, con l’imperatore Sigismondo e Federico di Brandeburgo che gli tenevano le briglie del cavallo, preceduto da un palafreno  ricoperto da una gualdrappa scrlatta che portava la cattedra di Pietro.

Martino V provvide a riorganizzare la Curia, ma della corruzione non potette farne a meno perché da una parte la Chiesa aveva bisogno di denaro che arrivava con la vendita di cariche e benefici, dall’altra (inaugurando la serie dei papi nepotisti) pensò a rendere più potente la propria famiglia con feudi che in Campania ottenne dalla regina Giovanna II d’Angiò in cambio della corona di Napoli, e nel Lazio affrancando beni appartenenti alla Santa Sede, rendendo i Colonna padroni di quasi tutto il Lazio: dall’altro canto la riforma poteva attendere!

Alla morte di Martino V (1431) fu eletto papa il veneziano Gabriele Condulmer col nome di eugenio iv (1431-1447) il quale convocò il concilio a basilea (1431), già stabilito da Martino V e presieduto dal cardinale Giuliano Cesarini.

Temi del Concilio dovevano essere l’eresia boema (v P.II, J.Hus), la riforma della chiesa, l’unione con la chiesa ortodossa  e delle forze greche e cristiane, per appoggiare una crociata contro i turchi che minacciavano Costantinopoli (sarà la c.d. crociata di Varna che vedremo più avanti).

Quanto all’ eresia boema, il Concilio aveva ottenuto una pacificazione da cui  era risultata avvantaggiata la nobiltà che si era appropriata dei beni della Chiesa e questa aveva accettato la spoliazione come prezzo della riconciliazione.

Circa l’altro tema della riforma della chiesa il Concilio sulla base delle decisioni del precedente Concilio di Costanza, si era mostrato disposto a sostituire la forma monarchica con l’ordinamento conciliare. Il Concilio inoltre, molto energicamente, proclamava la superiorità del Concilio sul papa, cercando di sventare i tentativi d’Eugenio IV di sciogliere l’assemblea. Provvide quindi a sopprimere gli abusi finanziari della curia, ad emendare i costumi del clero, ad imporre la residenza ai dignitari ecclesiastici, a combattere la simonia ed a vietare il cumulo dei benefici. Tutti questi provvedimenti, oltre alla diffidenza nei confronti del papa, portarono in seno al Concilio dei disaccordi di cui Eugenio IV, per sbloccare la situazione seppe approfittare.

Eugenio IV infatti, convocò subito un concilio a ferrara, lanciando un appello ai padri cristiani, che in parte aderirono. Erano arrivati da Costantinopoli sbarcando a Venezia (1438) l’imperatore giovanni viii paleologo accompagnato dal fratello Demetrio, dal patriarca Giuseppe e i vescovi Marco di Efeso, Bessarione di Nicea, il metropolita russo Isidoro di Kiev, Doroteo di Mitilene e un gran numero di teologi e di dottori fra cui il celebre Giorgio Gemisto detto Pletone, con il suo allievo Bessarione, per chiedere aiuto contro i turchi, richiesta barattata con l’unione delle due Chiese che comportava il riconoscimento della supremazia del papa.

I rappresentanti delle due chiese incominciarono con discussioni teologiche interminabili (sull’mmancabile Filioque (v. in Schede: La chiesa ortodossa) sullo Spirito Santo, sul Purgatorio, sull’Eucaristia e particolarmente sul primato del pontefice). A queste discussioni assisteva l’imperatore il quale, desideroso di giungere a una soluzione  (gli premeva la crociata contro i turchi) cercò subito di abbreviarle.

Finalmente nel Duomo di Firenze  (dove il Concilio si era trasferito dal mese di gennaio) l’imperatore (il 6 luglio 1439) con tutti gli altri prelati greci, s’inginocchiò davanti al papa che proclamava così la riunificazione (i testi dell’unione furono letti da Bessarione in greco e da Cesarini in latino). All’unione aderirono anche le altre comunità degli Armeni, giacobiti, serbo-russi, maroniti e nestoriani (v in Schede: Scismi e riti nelle chiese orientali), Bessarione e Isidoro di Kiev ricevettero il cappello cardinalizio (e furono gli unici che, anche in seguito, continuarono a perseguire l’idea della unificazione) 

L’unione durò solo fino al rientro dell’imperatore e della delegazione a Costantinopoli, dove Giovanni VIII fu accolto con ingiurie sia da parte del popolo, sia da parte del clero, che piuttosto che sottomettersi al papa sarebbero satati disposti a passare sotto il dominio dei turchi.

Nel momento della sottoscrizione dell’atto di unione, il patriarca Giuseppe  moriva e  il clero ortodosso di S. Sofia eleggeva patriarca Metrofane, vescovo di Cizico, contrario all’unione.

Gli oppositori alla unione rimasti a Basilea cercarono di forzare gli avvenimenti deponendo Eugenio IV (1439) e nominando un altro papa nella persona del duca Amedeo VIII di Savoia che prese il nome di felice v. Si presentava un altro scisma. Nessuno però in Europa, prese sul serio questa nomina. Felice V infatti ebbe l’accortezza di abdicare e il Concilio di Basilea si sciolse (1439).

Chiusa la fase dei Concili e il periodo di crisi del Papato, non essendosi potute realizzare le aspirazioni egemoniche della Chiesa, i papi si rivolsero alla stabilizzazione dello Stato pontificio diventando essi stessi principi con caratteristiche laiche e politiche. Si avvicinavano  i tempi dei grandi papi umanisti e rinascimentali.

 

Estratto dall’Atlante Storico De Agostini

 

“VARNA”

LA CROCIATA SENZA SPERANZA

        

 

 

Q

uesta crociata aveva avuto una connotazione diversa dal/le otto crociate precedenti (1096-1270, esclusa la quarta -1202-1204 - finita col saccheggio di Costantinopoli) dirette alla liberazione del santo sepolcro e durante le quali i cristiani avevano combattuto contro gli arabi.

Se pur chiamata crociata questa di Varna mirava innanzitutto a combattere i nuovi nemici, i

turchi, che avevano sostituito gli arabi e salvare ciò che rimaneva dell’impero bizantino con la liberazione di Costantinopoli (non ancora occupata) dalla morsa stringente dei turchi e scongiurare la paura dei turchi che minacciavano l’Occidente cristiano.

La crociata era vista come una guerra liberatrice, del tutto illusoria in quanto mirava alla cacciata dei turchi da tutti i territori da essi occupati (cioè da tutti i paesi balcanici, buona parte della Grecia compresa), spingendoli in Anatolia, la moderna Turchia, vale a dire in quei territori dove i turchi sarebbero stati relegati solo dopo circa cinquecento anni, in seguito del  disfacimento dell’impero ottomano.

L’impresa era materialmente e umanamente impossibile (se non fosse intervenuta la mano di Dio, che normalmente lascia che gli uomini seguano il loro destino) perché occorreva un grosso esercito con grande spiegamento di forze e di mezzi e soprattutto una unità  di intenti, impensabile, in quanto i vari principi e monarchi di Stati piccoli o grandi pensavano solo, come vedremo, ai propri specifici interessi economici e alla salvaguardia dei propri territori, con l’aggiunta delle riserve mentali di conquistare altri territori, anche a scapito degli stessi alleati del momento.

Di questa crociata, come abbiamo visto, se ne era reso promotore  il papa Eugenio IV (sulla base dell’idea del suo predecessore Martino V di cui egli era stato collaboratore), attraverso il suo legato Giuliano Cesarini che vedremo lavorare intensamente per la sua realizzazione, fino al sacrificio della propria vita.

Cesarini presiedeva il Concilio di Basilea e si era espresso chiaramente sulla questione quando aveva ricevuto la delegazione greca (1434) con la quale invitava “reges, duces, princepes” a liberare la Grecia dai turchi, mentre i legati greci chiedevano a loro volta di liberare i cristiani da “tam nefandissima et crudelissima servitute” esprimendo la speranza di una crociata liberatrice.

L’unico mezzo per respingere i turchi era l’unione delle due Chiese. Eugenio IV come abbiamo detto, continuava l’opera del suo predecessore Martino V, avendo preso parte alle trattative con i greci e proprio da queste trattative era scaturita una convenzione  (1430) con la quale la Curia romana si impegnava ad inviare denaro e soldati per la difesa di Costantinopoli, durante l’assenza dell’imperatore  e del patriarca (da Costantinopoli), quando fossero partiti per partecipare al Concilio che sarebbe stato indetto in una città italiana sull’Adriatico,.

Fin dal 1437 il papa aveva auspicato l’adesione degli ungheresi alla crociata. sollecitando Alberto d’Asburgo che veniva in quel tempo incoronato re d’Ungheria, esortandolo a difendere i fedeli dalla oppressione degli infedeli (ad defendendos fideles ab oppressionibus infidelium). Ma sin dalle prime battute era evidente che la crociata si sarrebbe rivelata un fallimento.

Quando infatti l’imperatore Giovanni VIII aveva preannunciato la sua partenza per partecipare al Concilio di Ferrara, già si lamentava di non aver ricevuto le spese per il suo viaggio e i mezzi per la difesa di Costantinopoli che il papa gli aveva promesso.

Poiché i veneziani avevano ammonito il Concilio di non provocare scismi (con i greci) in quanto i cristiani (cioè loro!) erano in “magno periculo” e da uno scisma sarebbero risultati indeboliti, il papa da questa richiesta aveva ritenuto poter fare affidamento sulla potenza marinara della repubblica, oltre che sull’aiuto finanziario dei fiorentini.

Ambdue le repubbliche erano impegnate nella lotta contro l’espnsionismo visconteo e avevano interesse a mantenere nell’alleanza il papa, contro Filippo Maria Visconti in fase di conquiste territoriali (v. P. IV, il Ducato di Milano).

Durante le riunioni del Concilio di Ferrara, Eugenio provvedeva a raccogliere il denaro per la difesa di Costantinopoli in quanto correva voce che i turchi che temevano l’Unione, avessero intenzione di conquistare Costantinopoli.

L’Unione delle Chiese, come abbiamo visto, ebbe luogo a Firenze e il papa aveva dato notizia ad Alberto II d’Asburgo, re d’Ungheria, al duca d’Austria Federico III e a tutti i principi tedeschi, della sottomissione dei greci, come prima delle conquiste della Chiesa cattolica (che

avrebbero portato in ultimo, secondo le speranze, alla conversione dei turchi!)

Dal momento della unificazione aveva inizio lo stillicidio delle promesse continuamente procrastinate. Il papa si impegnava con Giovanni VIII a fargli avere “entro il marzo prossimo” (1440) dieci galee armate che si sarebbero trattenute per un anno (o venti galee per sei mesi), oltre a denaro per assoldare milizie terrestri, e si impegnava anche a far pressione sull’imperatore Sigismondo, sul re d’Ungheria, Alberto d’Asburgo e presso il principe dell’Albania, Araniti Thopia Golem, per scendere in campo contro i turchi.

Queste sostanziose quanto improbabili promesse dovevano scontrarsi con la realtà, in quanto, Alberto II nel frattempo moriva e le lotte in Ungheria rendevano difficile la partecipazione di un esercito ungherese alla crociata. In Ungheria era infatti scoppiata una guerra tra le due fazioni, una favorevole agli Asburgo e l’altra a Vladislao (o Ladislao 1420-1444) III Jagellone, re di Polonia (dal 1434 al 1444).

Essendo morto Alberto d’Asburgo (1439) gli ungheresi offrivano la corona al ventenne Vladislao (1440), ma la vedova di Alberto, Elisabetta, aspettava un bambino e gli ungheresi non volevano aspettare la nascita in quanto c’era da fronteggiare il pericolo turco e volevano un monarca che fosse in grado di affrontarlo. Per questo scoppiava una guerra civile (1440) che frustrava le aspettative del papa.

Eugenio IV nominava  (1442) Giuliano Cesarini suo legato in Ungheria, Polonia, Boemia e Austria, con l’incarico di concludere la pace tra Vladislao ed Elisabetta, nominando anche il vescovo Cristoforo Garantoni per i confini dell’Ungheria: Lituania, Moldavia, Valacchia, e Albania.

Per non parlare delle lotte che avvenivano in Italia che non consentivano di inviare gli aiuti promessi all’imperatore Giovanni VIII: lo stesso papa Eugenio IV aveva problemi col regno di Napoli, avendo dato in un primo momento il suo appoggio a Renato d’Angiò per la conquista del regno contro Alfonso I d’Aragona alleato di Visconti.

Nel frattempo a Bisanzio la situazione si faceva più critica in quanto Demetrio, sospettando di essere escluso dalla successione  del fratello Giovanni VIII, si era  rivolto direttamente ai turchi dai quali aveva ottenuto truppe e con queste si era presentato (1442) sotto le mura di Costantinopoli.

Giovanni VIII chiedeva aiuto direttamente ai veneziani i quali non volendosi impegnare risposero che erano in attesa delle decisioni del pontefice.

Nel frattempo, il despota della Morea Costantino Dragases, che si stava recando a Costantinopoli assediata, per portare il suo aiuto, era stato bloccato dai turchi a Lemmo, ma fu liberato questa volta dalle galee veneziane che lo trasportarono a Costantinopoli da dove però le truppe turche si erano allontanate per aver subito una sconfitta in Transilvania.

A Basilea, come abbiamo visto, era stato eletto l’antipapa Felice V e in seno al Concilio si erano formati due partiti, uno appoggiava Elisabetta col figlio Ladislao detto Postumo, e l’altro parteggiava per Vladislao Jagellone. Tra l’altro i sostenitori ungheresi di quest’ultimo parteggiavano per Eugenio IV.

Il Cesarini iniziava l’opera di mediazione tra Asburgo e Jagellone. In questo periodo il comandante Giovanni Hunyadi riportava vittorie sugli ungheresi costringendo il voivoda di Valacchia, Vlad Dracul (v. in Specchio dell’Epoca: Vampiri), sottomesso ai turchi, a riconoscere la sovranità ungherese.

Nel 1443 il papa Eugenio lamentando in una bolla la situazione dell’Est, con la Serbia  invasa e l’Ungheria minacciata  da incursioni, invocava l’aiuto della cristianità con un esercito e una flotta. Quindi il papa si rivolgeva ai veneziani chiedendo dieci galee: i veneziani risposero che ne avrebbero fornito un numero anche maggiore, purché alle spese vi provvedesse il papa, il quale fece sapere di accettare. Ma si era nel campo degli accordi che subivano continui cambiamenti a causa del continuo mutare delle situazioni politiche.

Questa volta il cambiamento era avvenuto in Italia dove era stata appena firmata (1443) la pace di cremona (la città era stata portata in dote da Bianca Maria Visconti quando aveva sposato Francesco Sforza: v. cit. P. IV: Ducato di Milano), dalla quale Francesco Sforza aveva acquistato maggior forza e potenza. Ciò aveva subito dato luogo alla creazione di una lega organizzata da Filippo Maria Visconti, alla quale avevano aderito lo stesso papa (che a Cremona aveva appoggiato Sforza), che ora mirava al recupero di territori pontifici infeudati da Sforza, e Alfonso d’Aragona che essendosi assicurato il regno di Napoli  mirava a conquiste territoriali nel milanese.

Veneziani e fiorentini dai quali Eugenio si aspettava aiuti, con l’appoggio da lui dato ora al Visconti, vedevano rompersi l’equilibrio raggiunto a Cremona.

Francesco Sforza si trovava contro:  Filippo Maria Visconti, Niccolò Piccinino (che si era impadronito di Bologna), Alfonso d’Aragona e il papa.

Ma nessuna posizione era quella definitiva! Francesco Sforza infatti si era accordato con Alfonso d’Aragona al quale aveva promesso tutti i territori che avrebbe tolto al papa; a sua volta Francesco riceveva profferte dall’antipapa Felice V, al quale Francesco prometteva che avrebbe occupato Roma e gli stati della Chiesa e avrebbe arrestato il papa, assicurando anche l’adesione di Venezia, Firenze e Genova alla sua parte conciliare.

La situazione cambiava ad ogni piè sospinto. Alfonso I si era impadronito di Napoli (1442) a danno di Renato d’Angiò ed Eugenio pensò bene di trattare con Alfonso al quale prometteva l’investitura (argomento sempre persuasivo con chi intendeva impadronirsi di un reame); in cambio Alfonso oltre che a riconoscere l’autorità del papa, si impegnava a inviare sei galee o triremi armate nell’Ellesponto o in quel luogo che sarebbe stato indicato dal papa, e a combattere contro Francesco Sforza, mettendo a disposizione anche quattromila cavalli e mille fantoccini (accordi di Terracina).

Si giunse al maggio 1443 e il pontefice continuava a fare appello alla crociata ai veneziani,  che intrattenendo buoni rapporti con i turchi e consapevoli della circostanza che, sia l’esercito  ungherese, sia la flotta cristiana non erano pronti, subordinarono la loro adesione “alla pacificazione dell’Italia” e si offrivano anche come mediatori tra il papa e Francesco Sforza, precisando che “senza questa pacificazione non avrebbero messo a disposizione la flotta”.

A seguito di trattative il papa e i veneziani raggiunsero (per ora) l’accordo sul numero delle galee armate, che sarebbero state da sedici a venti, di cui dieci sarebbero state armate a spese del papa. Con quale denaro? Con le decime che il papa avrebbe imposto al clero fiorentino e veneziano!

Su questo disegno del papa i veneziani evidentemente non si mostrarono d’accordo, dal momento, essi sostennero, che l’impresa andava a beneficio di tutta la cristianità. Alla fine però i veneziani cedettero sulle decime ponendo la condizione che una volta raccolte (sapendo che molto spesso, raccolte per un motivo, venivano impiegate per altri) fossero, con impegno del papa, destinate esclusivamente all’armamento della flotta…“possibilmente depositandolo  presso le nostre Procuratie”!

In ogni caso per i veneziani rimaneva prioritaria la questione della pacificazione in Italia.

Il papa in questo periodo risiedeva a Siena da dove partivano e arrivavano tutte le ambascerie, e da qui era partita quella del nipote Francesco Condulmer per raccogliere il denaro, passando prima da Firenze per giungere poi a Venezia…senza però portare il denaro sperato, con meraviglia dei veneziani che commentarono appunto “nulla secum ferens pecunia”.

Il papa, visto che Venezia non si muoveva senza aver visto il denaro, si rivolgeva a  Genova,  ma quel doge rispose di essere ben disposto all’impresa, che purtroppo la situazione interna era difficile e minacciata da molte turbolenze interne (vi era anche lo stesso sottaciuto motivo dei veneziani: quello di non urtare i turchi con i quali correvano intensi rapporti commerciali).

Eugenio dovette quindi ripiegare su Alfonso d’Aragona ora divenuto suo alleato, il quale, sempre a parole, dava assicurazioni sulla sua buona disposizione per la spedizione contro  i turchi.

Insomma, mentre il papa riceveva solo promesse, nel settembre del 1443 l’esercito ungherese attraversava il Danubio, e mentre Cesarini riferiva ai veneziani dei suoi sforzi e dei risultati ottenuti in Ungheria con la partenza dell’esercito, i veneziani si mostravano in proposito molto scettici, rispondendogli che non intravedevano nessuna speranza nei risultati dell’armata (non videmus de ea armata spem fore habendam), e ciò perché essi ritenevano che la flotta che avrebbe dovuto appoggiare l’esercito, avrebbe già dovuto trovarsi ai Dardanelli dal mese di maggio, com’era stato stabilito.

L’esercito ungherese era formato da venticinquemila uomini con a capo Vladislao III, al comando di Giovanni Corvino Hunyadi, dei quali circa ottomila serbi di Giorgio Brankovic, despota della Serbia spodestato dai turchi.

Raggiunta Belgrado l’esercito si dirigeva verso Adrianopoli, capitale dei turchi con i quali si scontrarono a Niś (3 novembre) entrando in Bulgaria e occupando Sofia.

L’inverno impedì all’esercito di proseguire per Adrianopoli, nonostante la vittoria conseguita a Zlatiza. Verso la seconda metà di dicembre l’esercito prese la via del ritorno, inseguito dai turchi che furono nuovamente sconfitti a Cunoviza. Nel febbraio (1444) l’esercito rientrava a Buda.

E’ chiaro che durante questi avvenimenti sarebbe stato necessario che il papa e i veneziani prestassero il loro più tangibile aiuto e collaborazione, ma il papa si limitò a mandare un legato da Vladislao per congratularsi per la vittoria, mentre i veneziani aspettavano il denaro!

Costoro, pur avendo una flotta nel Golfo, che avrebbe dovuto congiungersi con l’esercito,  diedero disposizioni al comandante della flotta Luca Zorzi, di incrociare nelle acque della Dalmazia (dove avevano i loro interessi), e di non allontanarsi se non per combattere i pirati.

Essi erano sospettosi di Alfonso d’Aragona ora alleato del papa (per eventuali mire del re  sulla Dalmazia), che gli concedeva di incassare le decime raccolte da una bolla che imponeva al clero dei regni d’Aragona e di Napoli per l’ammontare di duecentomila fiorini, e che sarebbero serviti “per la repressione dei nemici della chiesa” (quindi non solo contro i turchi ma contro l’altro attuale nemico Francesco Sforza, come conveniva ad Alfonso); Eugenio imponeva anche le decime ai fiorentini per ventimila fiorini, e, dal momento che si trovava a Siena, anche al clero senese.

Soltanto nel mese di marzo (1444), su interessamento di Cesarini i veneziani ottenero dalla corte ungherese oltre al denaro la promessa di concessioni territoriali (avrebbero avuto in custodia le basi di Gallipoli sui Dardanelli e Salonicco), gli unici argomenti concreti che gli fecero svanire tutte le indecisioni che li avevano trattenuti dal prendere iniziative.

Ma anche in questa occasione insorsero dissensi col papa in quanto, mentre i veneziani intendevano limitare l’azione della flotta allo stetto di Gallipoli e quindi limitare l’azione alla occupazione di Gallipoli e Salonicco, il papa riteneva che al termine di questa azione, essi, diversamente dai precedenti accordi, dovessero portare aiuto a Rodi, dei cavalieri di s. Giovanni, minacciata dall’Egitto.

Ma toccava un argomento poco gradito ai veneziani per i quali tutti i traffici con l’oriente passavano dall’Egitto ed essi non volevano entrare in conflitto con quel sultano. Essi diedero quindi precise istruzioni al loro comandante Alvise Loredan, di attenersi agli accordi precedentemente presi col pontefice, di non attaccare in nessun modo navi egiziane e se le avesse incrociate, doveva evitarle.

Inutile fu anche la richiesta di inviare la flotta sul Danubio presso Nicopoli, per facilitare il passaggio all’esercito ungherese. I veneziani, sebbene pagati, facevano solo ciò che rientrava nei loro interessi.

Finalmente le navi incominciarono a partire (otto galee veneziane erano già in mare, le altre otto presero il largo da Venezia, seguite da altre quattro pagate dal duca di Borgogna), e il denaro cominciava ad affluire a Venezia, mentre l’esercito ungherese iniziava a rientrare in patria (febbr.’44).

Il parlamento di Buda non votò invece il rinnovo della spedizione in quanto riteneva che il paese non fosse - al momento - minacciato dai turchi, e inoltre vi erano problemi di riorganizzazione del regno (con Federico III col quale Cesarini ottenne una tregua biennale). Anche Brankovic era ora contrario alla guerra, in quanto aveva avuto dal sultano proposte di pace, con restituzione della Serbia.

Il trattato con Vladislao veniva firmato ad Adrianopoli con cui si concordava: la restituzione della Serbia col pagamento di una somma notevole da parte del sultano; la promessa di quest’ultimo di un aiuto alla Polonia di venticinquemila soldati in caso di qualsiasi necessità; la liberazione del  voivoda Dracul di Valacchia alla sottomissione alla Sublime Porta.

In tutti questi accordi Costantinopoli rimaneva esclusa (è chiaro che anche Vladislao si era mosso col suo esercito per proprio tornaconto), nonostante le preghiere di Giovanni VIII direttamente a Vladislao, e nonostante quest’ultimo continuasse a manifestare la sua volontà di guerra al papa, mentre al sultano confermava la validità del trattato, ma ruppe gli accordi non appena avuta notizia di uno spostamento di truppe da parte di Murad in Anatolia.

Nel mese di settembre l’esercito ungherese riattraversava il Danubio per dirigersi nuovamente verso Adrianopoli e raggiungere Costantinopooli.

Questa volta l’esercito era composto da ventimila soldati, compresi quattromila valacchi di Dracul, mentre le forze turche erano di sette-ottomila uomini in quanto altre forze erano impegnate in Anatolia, Peloponneso e Albania.

La sconfitta di Varna (10 nov.), fu determinata dal mancato coordinamento  della flotta veneziana con l’esercito ungherese; la flotta cioè avrebbe dovuto tagliare la strada al rientro di Murad, mentre invece se ne era rimasta ai Dardanelli. Murad dall’Anatolia aveva passato il Bosforo (probabilmente con l’aiuto dei genovesi), col risultato che ora le truppe ottomane erano superiori alle forze ungheresi.

Lo scontro si trasformò in una carneficina per ambedue le parti; la battaglia fu incerta fino a quando non furono uccisi Vladislao e il cardinale Cesarini, rivolgendosi in favore dei turchi  che misero in fuga gli ungheresi durante la notte.

Cessavano in questa maniera sanguinosa e ingloriosa le aspirazioni del papa Eugenio IV il quale rivolse le sue attenzioni nei confronti dell’isola di Rodi sotto le mire dei mamelucchi egiziani, che aveva già subito numerosi attacchi (1434,’40,’43 e ’44).

Eugenio voleva che fosse la stessa flotta a provvedere alla difesa ma vi fu l’opposizione dei venezani che non intendevano in alcun modo incrinare i rapporti con gli egiziani. Eugenio si rivolse quindi ai genovesi perché armassero a sue spese delle navi da mandare a Rodi, ma i veneziani posero la condizione che le galee (nel numero di quattro) potevano essere costruite a Genova, ma dovevano essere armate altrove (!).

Eugenio che non si rassegnava e continuava a fomentare la guerra, fece sapere questa volta che dopo Rodi la flotta doveva aprirsi la strada per la Terrasanta e nominava suo nipote Marco Condulmer patriarca di Alessandria e legato presso la flotta.

Si rivolgeva ancora ai veneziani chiedendo aiuto per Rodi, ma essi risposero come già avevano fatto in precedenza, che la guerra contro i turchi doveva limitarsi alla salvaguardia della cristianità, e per la difesa dell’isola non occorreva una flotta  ma erano sufficienti solo uomini affidati a un buon capitano.

Gli egiziani nel frattempo allentavano la morsa sull’isola (che sarà conquistata dai turchi nel 1522 e i Cavalieri si trasferiranno a Malta), e poiché da parte degli ungheresi non vennero prese altre iniziative, Eugenio finalmente mise da parte le sue velleità per la crociata e non prenderà altre iniziative fino alla sua morte che avverrà dopo tre anni (1447).

L’idea della crociata non finirà con Eugenio IV ma sarà ripresa (lo vedremo negli articoli sull’Impero bizantino) da un altro papa, Pio II (Enea Silvio Piccolomini), con una crociata, questa volta c.d. fantasma.

 

 

 

 

FRA’ GEROLAMO

SAVONAROLA

 (1452-1498)

               

Mentre la fiamma feroce o Gerolamo,

si nutriva delle tue membra,

la religione, straziate le chiome,

pianse e disse: Fiamme crudeli,

risparmiatelo, in questo rogo ci sono

le nostre viscere”

 

SOMMARIO: LA PREDICAZIONE; IL POLITICO; IL BRUCIAMENTO DELLE VANITA’; IL CONTRASTO COL PAPA;VERSO LA FINE.

 

LA PREDICAZONE

 

 

F

rà Gerolamo (1452-1498) erudito e d’intelletto acuto, pensatore e poeta, è il personaggio che  chiudendo il medioevo, da un lato porta in sé i germi dell’Umanesimo (aveva favorito nei conventi da lui retti, lo studio del greco e delle lingue orientali), che già da tempo si stava facendo strada in Italia, che aveva posto l’uomo al centro del mondo e aveva dato  spazio alla ragione, dall’altra, accecato dal fanatismo, non riconosceva alcuna dignità e alcun rispetto nei confronti della persona umana, rimanendo ancora condizionato alla mentalità tutta medievale del castigo dell’uomo che, se peccatore, sodomita o peccatrice, dovesse essere arso vivo. Purtroppo il fato riserverà proprio a lui questa fine atroce.

La sua carriera fu breve: la sua stella brillò per soli otto anni. A ventidue anni (1474) era stato preso dalla predica di un frate agostiniano e aveva maturato la vocazione all’ordine monastico che comunque costituiva un passaggio obbligato per chi, privo di mezzi, volesse dedicarsi allo studio, entrando nell’ordine dei domenicani.

Dopo aver seguito gli studi teologici, aveva iniziato la predicazione (1481-82), piuttosto rozza e accompagnata da gestualità violenta che non suscitava alcun interesse o entusiasmo, tanto da fargli persdere la fiducia in se stesso.

Sin dalle prediche dei primi anni passati a S. Gimignano (1485-86), aveva preannunciato i princìpi fondamentali che costituiranno la base di tutta la sua futura predicazione, cioè la necessità di un castigo e di un rinnovamento per la Chiesa cattolica.

Dopo aver predicato  in diverse città (Bologna, Ferrara, Brescia) tornava a Firenze e dal pulpito di S. Maria in Fiore, la sua oratoria era divenuta viva, trascinante, millenarista e carica di profezie e di imminenti castighi divini, da far scoppiare  in lacrime il pubblico sempre sensibile a questi temi.

La predicazione infuocata, con visioni apocalittiche, era fatta di presagi e sventure fra cui l’arrivo di un flagello:  Popolo fiorentino, io dico ai cattivi: Tu sai che  dai peccati vengono le avversità. Va, leggi: quando il popolo ebreo faceva bene ed era amico di Dio, sempre otteneva bene; al contrario quando si metteva alle scelleratezze, Dio apparecchiava il flagello. Firenze, che hai fatto tu,  che hai tu commesso? Come ti trovi con Dio? Vuoi che te lo dica? Ohimè è pieno il sacco: la tua malizia ha raggiunto il colmo. Firenze, aspetta, aspetta un gran flagello. Signore, tu mi sei testimonio, che coi fratelli mi sono sforzato di sostenre con le orazioni questa piena e questa rovina: non se ne può più. Abbiamo pregato, Signore, che almeno converta tale flagello in pestilenza: se abbiamo o no impetrato la grazia, tu te ne ravvederai. 

Questa idea del flagello ripetuta in altre prediche, era stata presa come presagio della venuta di Carlo VIII e gli aveva fatto attribuire la fama di profeta.

L’epoca di Savonarola è quella in cui l’Umanesimo (v. P.V) attraversa il suo periodo d’oro  (e si era  alle soglie del Rinascimento), con Lorenzo de’ Medici al quale il frate aveva negato l’assoluzione in punto di morte (non sai sa bene se ciò corrispondesse al vero): gli aveva infatti chiesto di restituire i beni acquistati illegittimamente, e il moribondo aveva acconsentito; ma quando gli aveva chiesto di restituire  la libertà e il governo del popolo, Lorenzo gli aveva opposto un rifiuto e   frà Gerolamo lo lascia senza dargli la benedizione.

Pico della Mirandola era  suo buon amico; Angelo Poliziano lo stimava come predicatore di insigne dottrina e come santo; il filosofo platonico e teologo Domenico Benivieni prese le sue difese in numerosi scritti; Giovanni delle Corniole lo aveva rappresentato in una incisione; Andrea della Robbia e i cinque figli lo ritrassero in molte medaglie in terracotta; l’architetto Simone Cronaca detto il Pollaiolo, lo aveva in grande considerazione; Lorenzo di Credi ne fu influenzato; il miniatore frà Benedetto da Firenze (Bettuccio di Firenze) aveva scritto “Cedrus Libani” in cui aveva descritto la sua vita e aveva raccolto le poesie ascetiche di frà Gerolamo  nel “Fasciculus Mirrhae”. Il pittore Baccio della Porta, per lui distrusse tutte le opere di carattere profano e prese l’abito monastico col nome di frà Bartolomeo; aveva messo in crisi il grande Botticelli contro il quale Gerolamo tuonava considerando le sue pitture lascive, e alcune delle sue opere (per fortuna solo alcune giovanili), furono bruciate.  Sandro negli ultimianni si era ritirato in convento e aveva meditato anche di lasciarsi morire di fame. Ma anche un altro grande era stato messo in crisi: Michelangelo, che a seguito dei cattivi presagi di Gerolamo se ne fuggì da Firenze (1494) andando a Venezia e poi a Bologna.     

Savonarola, legato come abbiamo detto al precedente periodo medievale, nella sua foga moralizzatrice condannava le nuove idee che si stavano affermando considerandole un’altra delle  rovine d’Italia.

Secondo il frate, l’irrompere delle idee pagane nuocevano alle idee cristiane che nelle accademie avevano subito un sovvertimento, con i nomi di battesimo, egli diceva, sostituiti da quelli dell’antichità, con Cristo considerato figlio di Giove; le monache considerate vestali; Maria  divenuta una dea; i cardinali, erano ora i padri coscritti; la Provvidenza divenuta fato; con allusioni mitologiche riprodotte nelle medaglie e negli elogi dei pontefici.

Nelle scuole l’ammirazione era rivolta verso eroi pagani, dandosi preminenza all’Ars amandi di Catullo e alla Priapea di Tibullo; mentre in filosofia si dava più credito alle sottigliezze di Aristotele anzicchè dar credito alle sacre scritture, le sublimità platoniche sfociavano in deliri teosofici; i predicatori facevano un miscuglio tra futilità dei  filosofi e sacra scrittura e questo spacciavano sui pergami tralasciando le cose di Dio e della fede; la pittura esibiva sugli altari seduttrici nudità o somiglianze impudenti e durante il sacrificio della messa i curiosi vi si recavano  per riconoscere le belle del paese”. 

 

IL POLITICO

 

S

uccessivamente alla cacciata di Piero de’ Medici (1494), in Firenze erano quattro i partiti che si contendevano il potere. I seguaci di Savonarola, Frateschi o Piagnoni, così chiamati dagli avversari per le campagne di austerità e di penitenza che conducevano. I Bigi o Palleschi, sostenitori dei Medici (dalle cinque palle rosse in campo d’oro dello stemma mediceo) così chiamati per la loro ambiguità, in quanto tra di essi vi erano anche sostenitori di Savonarola. Gli Arrabbiati, rappresentanti dell’aristocrazia per il furore con cui avversavano le riforme politiche e sociali di Savonarola. Costoro erano anche i più potenti per le amicizie che avevano con altri principi italiani, da Ludovico il Moro, alla corte papale di Roma. Infine i Compagnacci detti anche Tiepidi, buontemponi e amanti delle beffe (erano stati loro a chiamare Piagnoni i Frateschi) e del buon vivere, ma, con la loro guida Dolfo Spini, pronti a prendere le armi contro il frate.

Savonarola era un misto di fanatismo religioso e lungimiranza politica, e la sua idea politica era quella di un rinnovamento democratico che partendo da Firenze avrebbe dovuto  estendersi a tutta l’Italia, con una forma di governo che doveva ispirarsi a quello della Repubblica di Venezia che egli come ferrarese ben conosceva e apprezzava in quanto così com’era articolata non aveva mai dato luogo a discordie civili.

Aveva scritto il “Trattato circa il reggimento della città di Firenze” in cui esaminava quale tipo di governo potesse adattarsi al popolo fiorentino, giungendo alla conclusione che la formula migliore sarebbe stata quella di un governo civile in cui venissero condivise le responsabilità. Egli facendo una spietata analisi della psicologia del tiranno (riconoscibile negli esponenti della famiglia dei Medici), riteneva che il caso peggiore di un governo fosse quello della sottomissione al tiranno.

Collaborando al governo della città che voleva repubblicano e democratico, basato sulla purezza dei costumi del clero, egli aveva introdotto, sul modello veneziano, due Consigli, il Grande o Maggiore che sceglieva tutti i magistrati della città e un altro Consiglio, più ristretto, composto di ottanta membri di età superiore ai quarant’anni, al quale spettava  il controllo  sui provvedimenti  della Signoria prima di passare al Consiglio Grande che li avrebbe approvati.

La Signoria, vale a dire il Governo, rimaneva quello farraginoso delineato nel medioevo, che inutilmente Savonarola aveva cercato di alleggerire, con il Podestà, il Capitano del Popolo, il Gonfaloniere di Giustizia, i Priori delle Arti, oltre a venti “accoppiatori” incaricati di scrutinare i nomi di coloro che dovevano essere eletti alle cariche, e dopo lo scrutinio, di nominare la Signoria, i Consigli del Capitano e del Podestà

Gerolamo, tra l’altro aveva fatto approvare una legge (1495) che introduceva l’appello contro le sentenze di condanna di primo grado da parte di coloro che fossero stati condannati per delitti contro lo Stato, che avrebbero potuto appellarsi al Consiglio Grande. Successivamente, quando Piero de’ Medici fece un tentativo per rientrare in Firenze, Gerolamo propose la pena di morte per chi intendeva restaurare la tirannide.

 

IL BRUCIAMENTO

DELLE VANITA’

 

G

erolamo aveva combattuto l’usura facendo istituire il Monte di Pietà, e volendo  risanare i costumi aveva organizzato il “bruciamento delle vanità” come reazione agli eccessi  dei festeggiamenti del carnevale che nelle nuove forme ispirate dall’umanesimo e dal rinascimento era intriso di paganesimo, istituendo l’anatema, vale a dire la ricerca di oggetti di lusso che dovevano essere bruciati.

Aveva  quindi istruito squadre di ragazzi che andavano in giro per la città a fare razzie nelle case in cerca dell’anatema: sequestrando  libri (le sudicerie  del Boccaccio  del Pulci) e stampe, suppellettili, prodotti di bellezza, parrucche, carte da gioco, dadi, quadri e incisioni. Furono distrutte tante piccole e preziose opere d’arte,  tra l’altro un canzoniere del Petrarca adornato d’oro e di miniature.

Il  bruciamento” (il primo ebbe luogo nel febbraio 1497) fu organizzato con corteo che partiva dalla chiesa di s. Marco (di cui Gerolamo era Priore) e giungeva in piazza della Signoria dove erano state approntate le cataste di legna con polvere da sparo per facilitare il fuoco, con canti in lode di Cristo e dileggio del carnevale. Sembrava una gran festa in cui il coro si disponeva nella Loggia, i trombettieri suonavano le trombe d’argento, il popolo nella piazza che applaudiva, le campane che suonavano a distesa. Quello dell’anno successivo (1498) sarà anche l’ultimo. Questa volta vi fu la reazione dei Compagnoni che assalirono i ragazzi inseguendoli con bastoni e spezzando le loro croci e gli stendardi.

Nel successivo mese di marzo durante la festa dell’Annunziata frà Gerolamo si trova ad affrontare la questione sorta l’anno precedente della sfida con la prova del fuoco, che preannuncia la sua fine.

 

IL CONTRASTO CON IL PAPA

 

I

l contrasto con il papa Alessandro VI era iniziato dopo la battaglia di Fornovo (1495) in cui  la lega voluta dal papa aveva tentato di bloccare Carlo VIII (che stava riattraversando l’Italia dopo essere stato incoronato a Napoli (v. P. IV)), dalla quale Carlo era riuscito a svincolarsi e aveva potuto proseguire per il Piemonte; Firenze comunque aveva confermato la sua fedeltà alla Francia, e ciò contrastava con i voleri di Alessandro VI che riteneva che questa fedeltà avrebbe consentito a Carlo di ritornare in Italia.

Il papa inviava a Savonarola un “breve” in cui gli manifestava il desiderio di incontrarlo e lo invitava a Roma. Gerolamo ben conoscendo la sua fama, aveva risposto rispettosamente, ringraziandolo e dicendogli di non essere in condizioni di poter affrontare il viaggio per aver avuto attacchi di febbre e di dissenteria e di essere sotto le cure dei medici che gli avevano proibito lo studio e la predicazione.

Nell’agosto successivo a Torino veniva concluso un accordo tra Carlo VIII e la città di Firenze che aveva fatto infuriare il papa che, come detto, intravedeva  la possibilità di un ritorno in Italia del monarca francese.

Nel settembre il papa inviava a Firenze un secondo “breve”, questa volta  erroneamente (e deliberatamente) fatto consegnare al Priore del convento dei francescani di Santa Croce, invece che a lui, Priore dei domenicani di San Marco, col risultato che i francescani avevano propalato tutti i particolari della lettera, prima che essa fosse conosciuta dai domenicani.

Nel “breve” si parlava delle novità eretiche diffuse dal Savonarola e si demandava la causa e ogni potere disciplinare al Vicario generale della Congregazione lombarda di Brescia, frà Sebastiano Maggi. Il documento dopo essere stato letto, e come accennato, diffuso dai frencescani, fu consegnato ai domenicani.

I frati più vicini a Savonarola, frà Domenico da Pescia, frà Tommaso Busini e frà Silvestro Manuffi, venivano trasferiti al convento di Bologna con l’avvertimento che ogni disobbedienza sarebbe stata punita con la scomunica.

La Signoria da questa lettera si era sentita coinvolta (e lo era) e mentre in un primo momento non  aveva assunto alcun atteggiamento nei confronti del frate, dopo questa lettera aveva disposto il divieto delle sue predicazioni.

Savonarola però insisteva sul rinnovamento della Chiesa, e non avendo accolto l’invito del papa di sospendere le prediche, aveva continuato  nonostante la successiva scomunica (1497) alla quale non aveva dato peso considerando il papa un  ferro rotto”.

 

VERSO LA FINE

 

A

 Prato durante una predica il francescano Francesco Puglia accusando Savonarola si era offerto di provare le sue accuse con la prova del fuoco, l’accusa era stata raccolta da un seguace di Savonarola, frà Domenico da Pescia, ma frà Francesco si sottrasse adducendo di dover rientrare in Firenze dove era stato chiamato.

Nelle prediche che i due frati fecero l’anno seguente (marzo 1498) ritornarono sulla prova del fuoco. Frà Francesco rifece, forse senza convinzione, la richiesta, subito accolta da frà Domenico, invitato però da Gerolamo a lasciar perdere. Oramai non era più possibile tornare indietro in quanto gli Arrabbiati avevano intravisto la possibilità di farla finita una buona volta con Savonarola.

Costoro, tramite gli amici che avevano in seno alla Signoria, fecero registrare da un notaio le tesi di Savonarola che dovrevano essere sottoposte alla prova del fuoco (e che sarebbero state  confermate dall’esito favorevole della prova),  esse erano: “La Chiesa di Dio ha bisogno di rinnovamento: essa sarà castigata e riformata. Anche Firenze castigata e rinnovata entrerà in un’era di prosperità. Gli infedeli si convertiranno. I prodigi avverrano nei tempi presenti. La scomunica contro il priore di s. Marco è nulla e chi non la rispetta non commette peccato”. 

Il primo a firmare è frà Domenico al quale inutilmente Gerolamo aveva suggerito la moderazione (cioè di lasciar perdere!); frà Francesco però si rifiuta in quanto egli sostiene di volersi confrontare direttamente con frà Gerolamo; anche un altro frate sostenitore di Gerolamo appone la sua firma, è frà Mariano Ughi. Frà Francesco dal momento che non può confrontarsi con Gerolamo,  a sua volta offre un secondo campione, frà Giuliano Rondinelli e quindi la sfida ora dovrà avvenire tra frà Mariano e frà Giuliano che sicuro di morire afferma di offrirsi per la salvezza delle anime.

In un’atmosfera di psicosi collettiva tutti i domenicani sostenitori del loro Priore si offrono di entrare nel fuoco; anche durante una predica in s. Marco (1° aprile) in cui frà Gerolamo afferma: “noi veniamo provocati e costretti ad accettare la sfida, e  coloro che veramente si sentiranno ispirati dal Signore, usciranno illesi dalle fiamme”, aggiungendo, “del che dubitiamo”, i fedeli si offrono anch’essi di entrare nel fuoco; viene stampata una lista che comprende oltre ai trecento frati di s. Marco, tutti i religiosi e fedeli che si offrono per affrontare la prova.

E’ il sabato 7 aprile, vigilia della domenica delle Palme e la predica di Gerolamo è solo una preghiera rivolta al Signore, in cui il frate afferma che non era stato lui a intraprendere l’opera per sua presunzione, e lo pregava di dimostrare che era stato lui a mandarlo al popolo. Le sue parole sono interrotte dall’ingresso dei mazzieri della Signoria e formatasi una processione, questa da s. Marco si diresse verso piazza della Signoria dove i francescani avevano occupato la metà della Loggia, mentre l’altra metà sarà occupata dai domenicani.

Il resto della piazza dov’era stato preparato il palco è pieno di popolo. Il fuoco sarebbe stato appiccato su un palco lungo cinquanta braccia e largo dieci al quale  si accedeva a mezzo di due scalinate messe agli opposti; era ricoperto di terriccio su cui era ammassata una catasta di legna frammista a stoppa bagnata di acqua ragia, con in mezzo uno stretto corridoio che doveva essere attraversato dai due sfidanti che sarebbero partiti dalle due opposte estremità

Quattro commissari della Signoria sollecitano gli sfidanti a prepararsi.  Gerolamo risponde che frà Domenico (partito dalla chiesa con piviale rosso), è pronto, ma hanno inizio le contestazioni dei francescani i quali dicono che i paramenti sono stati stregati con incantesimi, per cui il piviale viene sostituito.

Dopo il piviale, poiché frà Domenico aveva preso un grosso crocifisso, è contestato anche il crocifisso…che poteva essere anch’esso stregato. Il crocifisso viene scambiato con il ss. Sacramento. Ma anche questo non va bene perché il Sacramento non poteva essere esposto alle fiamme. E’ evidente che i francescani vogliono portare le cose per le lunghe; tra l’altro il loro sfidante frà Giuliano Rondinelli non si è ancora fatto vivo.

Il popolo rumoreggia, il giorno sta passando e i francescani dalla Loggia incominciano ad allontanarsi alla chetichella, altrettanto fanno i domenicani; il cielo nel frattempo si è oscurato e all’improvviso scoppia un temporale con una fitta pioggia, grandine e fulmini. Da una parte i nemici di frà Gerolamo gridano all’incantesimo, alla stregoneria e all’aiuto dell’inferno, dall’altra i suoi fedeli gridano al miracolo e al segno divino: tra tutti si sparge la delusione per il mancato prodigio.

A frà Gerolamo la Signoria aveva proibito di predicare, e la domenica delle Palme frà Gerlamo più che predicare, rivolge una mesta preghiera per ricordare la passione di Cristo, che suona però come sfida alle orecchie delle spie sparse tra i fedeli. Gli Arrabbiati corrono a denunciare il frate di essere venuto meno al divieto di predicare.

Nella città l’atmosfera è carica di tensione, nel pomeriggio in piazza del Duomo dove si trova frà Mariano Ughi con un gruppo di fedeli, qualcuno gli urla: “andatevene via piagnonacci”, il grido in un batter d’occhio si propaga per la città. I più scalmanati urlano di andare a san Marco e si dirigono verso il convento, scorre il primo sangue, un giovanetto viene preso per uno dei seguaci di Savonarola che bruciavano gli anatemi e aggredito lo lasciano in una pozza di sangue.

Sebbene fossero stati emanati quattro bandi da parte della Signoria intesi ad evitare tumulti, è ormai notte, gli Arrabbiati si recano a s. Marco e accatastano alle porte delle fascine, alcuni riescono ad entrare nei chiostri; i frati reagiscono e armati di croci colpiscono gli aggressori, in chiesa un frate tedesco “bello e giovane”, che era riuscito ad impadronirsi di un archibugio, salito sul pulpito spara sui rivoltosi con l’invocanzione: “Signore, salva il tuo popolo” (Salva populum tuum, Domine).

Giungono le truppe e il comandante  chiede la consegna del Priore pur non avendo alcun mandato, che manda a richiedere alla Signoria; quando giungono i mazzieri i tre frati vengono portati via in catene accolti dalla folla con sputi e urla di odio; Gerolamo durante il percorso viene colpito varie volte dagli stessi soldati.

I frati Gerolamo, Domenico e Silvestro vengono chiusi in prigione. L’11 aprile la Signoria istituisce una commissione di diciassette membri incaricati di processare i tre frati, ma già dal 9 Gerolamo è sottoposto a interrogatorio, fatta con tratti di corda, che continuerà ogni giorno fino al diciassette aprile.  Gerolamo ridotto allo stremo non fa che invocare inutilmente il Signore, “tolle, tolle Domine animam meam” (prendi, prendi la mia anima, Siugnore).

Le risposte che dà  sono tali da non poter ricavare nessun atto di accusa. Sulle sue profezie: se vi dirò di sì, non mi crederete, se vi dirò di no, io dirò bugie; il notaio Ceccone, alla cui presenza si svolgevano gli interrogatori, propone  che nella redazione delle risposte, le motivazioni date da Gerolamo siano trascritte in modo da diventare ammissioni di doppiezza. A questo modo però la Signoria non  riusciva ad avere materiale valido per la condanna.

Torna alla carica il notaio per fargli firmare due atti degli interrogatori; dopo averne preso visione Gerolamo lo minaccia dicendogli che se li avesse pubblicati, sarebbe morto entro sei mesi: egli comunque firma e la sua predizione si avvera. Il 19 sono letti in Consiglio gli atti del processo; anche i frati del suo convento gli si rivoltano contro: lo accusano di averli privati della libertà in quanto tutte le decisioni venivano prese da lui e dagli altri due frati arrestati (frà Domenico Buonvicini e frà Silvestro Maruffi). Essi scrivono anche al papa in cui sconfessando il loro Priore, chiedono perdono di averlo seguito e pur scomunicati, di aver somministrato i sacramenti.

La infame e ingiusta sentenza di morte viene emessa il 22 maggio e viene letta ai condannati la sera dello stesso giorno; dopo la cerimonia della privazione degli ordini sacri, la mattina del giorno seguente i tre frati assistono alla messa e fanno la comunione con l’ostia che Gerolamo passa agli altri due fratelli. I tre quindi vengono portati sulla piazza dove era stato preparato il palco con le croci, i capestri e le catene che dovevano legare i loro corpi e sostenerli dopo essere stati impiccati, per essere bruciati.

Dopo l’esecuzione dei due frati è il turno di Gerolamo al quale qualcuno dalla folla in silenzio, ma carica di odio grida: Savonarola ora è tempo di fare miracoli;  in quel momento il boia dà la spinta al corpo del frate, accennando a un macabro passo di danza e lasciandosi sfuggire la catena con la quale doveva avvolgere il corpo del frate, perché voleva prendersi la macabra soddisfazione di bruciarlo quando egli era ancora in vita. Ma il frate muore e il fuoco avvampa quando il boia era appena sceso dal palco, appiccato da un nemico del frate che grida di aver finalmente bruciato il frate che voleva bruciarlo.   

 

 

FINE

                                                                

segue parte quarta


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