Papa e fedeli - Avignone - Palazzo dei Papi
L’EUROPA
VERSO
PARTE TERZA
IL PAPATO
IL GRANDE E PICCOLO SCISMA
L |
o
Stato pontificio, come abbiamo visto (Articoli: I mille anni dell’ impero
bizantino, in Cap. VI) territorialmente si era formato nell’VIII sec.,
dall’abbandono dei territori bizantini ed era costituito dai territori
del Lazio, Toscana (Tuscia), Marche, Esarcato di
Ravenna e Pentapoli (le cinque città
dipendenti dall’esarcato Rimini, Pesaro, Fano
Senigallia e Ancona).
Nel
XIV sec.
Abbiamo
visto come Filippo IV aveva convinto il papa clemente v
(1305-1314) a recarsi in Francia per la cerimonia dell’incoronazione
(1305) e gli eventi vollero che Clemente vi rimanesse subendo in qualche modo
la sua influenza, almeno per quanto aveva riguardato la fine dei Templari. e da
questo momento ebbe inizio quello che viene chiamato scisma d’occidente, il grande: 1305-1376 (il piccolo scisma sarà quello della contemporanea
elezione di due papi v. sotto), con i
papi che rimasero legati alla sede di Avignone. Il trasferimento era
stato considerato scandaloso e aveva suscitato indignazione nel resto
dell’Europa, sia perché con la sede ad Avignone era stato preconizzata l’ifluenza
francese sulla nomina dei papi
(come avvenne: i papi eletti erano tutti francesi (1)), sia perché il numero dei cardinali francesi era
divenuto preponderante: su un Sacro collegio di 134 cardinali, 113 erano
francesi.
Per
altri versi, Clemente V aveva mostrato una spiccata autonomia di fronte alla
monarchia francese, nell’appoggiare la nomina imperiale per Enrico del
Lussemburgo, contro la candidatura di Carlo di Valois
voluta da Filippo, e spiccata personalità nell’usare l’arma
della scomunica: aveva scomunicato
i veneziani che avevano tentato di impadronirsi di Ferrara alla morte di Azzo
d’Este (1308).
A
Clemente V si deve la fondazione delle Università di Orleans e Perugia ed il regolamento degli statuti della
facoltà di medicina di Montpellier; l’istituzione delle cattedre
di lingue orientali a Parigi, Oxford, Bologna e Salamanca;
l’autorizzazione alla dissezione dei cadaveri per scopi scientifici (v.
in Articoli: Carlo V ecc., P.I, par. Vesalio), l’aggiunta del VII libro del Corpus Juris Canonici (che va sotto il nome di Clementine).
Avignone
in questo periodo diventa un centro finanziario contribuendo all’
arricchimento del tesoro pontificio. Nelle sale del castello papale, il denaro
della corruzione proveniente da tutte le parti dell’Europa, si contava a
mucchi.
Infatti,
le innumerevoli imposte che gravavano sulla gerarchia ecclesiastica, sui
monasteri e parrocchie, facevano affluire ad Avignone questo denaro che
riempiva i forzieri. Ciascun funzionario, nel primo anno in cui gli veniva assegnata
la carica, doveva rimettere alla curia la metà del suo reddito (poi trasformato
nella decima parte: decima).
I
nuovi arcivescovi, al momento della consegna del “pallio” (l’emblema della loro carica costituito da una
fascia di lana bianca), dovevano versare al papa una cospicua somma di denaro.
Alla morte di ogni arcivescovo, vescovo o abate, i beni da questi amministrati
con i relativi proventi, ritornavano alla chiesa, che per questo motivo era
portata a ritardare le nuove nomine.
Ogni
richiesta fatta al papa presupponeva una decisione o una risposta ed era
accompagnata da donativi, in quanto decisioni e risposte erano in funzione
della loro consistenza. (in Inghilterra, Edoardo III (1312-1377) ricordaderà a Clemente VI che “il successore
degli Apostoli era stato incaricato di condurre il gregge, non di tosare le
pecore”).
Abbiamo
visto come Wycliffe si fosse scagliato contro il
potere della Chiesa, e Guglielmo di Ockam con Marsilio da Padova (v. sotto),
proprio per questi motivi, avevano posto le basi del movimento conciliare.
In
Germania gli Elettori respinsero ogni ulteriore intrusione dei papi
nell’elezione dell’imperatore. Nel 1372 gli abati di Colonia
dichiararono pubblicamente che
A
Roma,
A
Milano il feroce Bernabò Visconti si era appropriòato di tutti i beni della Chiesa, costringendo i legati papali che gli
portavano la scomunica (1362), a mangiare la pergamena delle bolle, comprese le
cordicelle e il piombo dei sigilli.
In
Italia era stato mandato (1319) il cardinale Bertrando del Poggetto
per mettere ordine ma quando era ripartito (1334) le cose erano tornate come
prima. Era stato seguito dal cardinale Egidio Albornoz,
inviato da innocenzo vi (1352-1362), il quale aveva promulgato il “Liber constitutionum sanctae matris ecclesiae”
dette anche “Constitutiones Aegidianae” con cui unificava tutte le leggi
dello Stato della Chiesa, rimettendo ordine a Roma, sì che papa U urbano v (1362-1370), che era stato il migliore dei papi avignonesi e aveva cercato di reprimere gli abusi e il
lusso, riportava la sede a Roma (1367). Morto però l’Albornoz, la situazione ritornava ad essere quella di prima
e il papa si vedeva costretto a tornare ad Avignone.
A
Firenze furono confiscate tutte le proprietà della Chiesa (1376), chiuse
le corti episcopali, demoliti gli edifici dell’Inquisizione, imprigionati
e impiccati i preti che si ribellavano e l’Italia fu invitata ad
abbattere l’intero potere temporale della Chiesa.
Sarà
gregorio xi (1370-1378) a lasciare Avignone e partire per Roma nel
1376 dove morirà nel 1378, senza essere riuscito a metter fine
all’anarchia. Gregorio XI, per mettere ordine aveva mandato in Italia il
cardinale Roberto di Ginevra, e costui usando il pugno di ferro si era
macchiato di stragi e del saccheggio di Cesena (1377).
In
mezzo a quest’anarchia, con il Vaticano circondato
da bande armate e in mezzo al frastuono di campane e di popolo che voleva un
papa romano, fu eletto papa (1378), il cardinale Bartolomeo Prignano
arcivescovo di Bari, che per sottolineare la sua “romanità”, aveva preso il nome di urbano vi (1378-1389) .
Con
questa elezione si verifica il piccolo scisma, che, fino al 1417 porterà la lacerazione
all’interno del mondo cristiano. Lo scisma fu determinato dalla
contemporanea elezione di due papi.
L’elezione
di Urbano VI non fu accettata dai cardinali francesi, appoggiati del loro re,
Carlo VI, e da quei cardinali che non erano d’accordo con lui sulle
riforme che egli voleva introdurre con energia nel sacro collegio e per
eliminare la corruzione dal sistema
finanziario della Chiesa, i quali dichiararono nulla l’elezione.
Il
20 settembre essi si riunirono a Fondi ed elessero papa il vescovo di Thérouanne, Roberto di Ginevra, che per sottolineare
la continuità con i papi di Avignone, prese il nome di C clemente vii (1378-1394) e si trasferì ad Avignone.
Egli,
non diede bella prova di sé. Conduceva una vita mondana e dispendiosa
che gli fece perdere credito. Ebbe così inizio il processo di riaccostamento al papato di Roma. Urbano VI invece rimase a
Roma e il mondo cristiano si divise a metà: una parte, costituita dalla
Francia e dagli Stati che le gravitavano intorno, Napoli con la regina Giovanna
che era feudataria della Provenza con Avignone, Castiglia,
Aragona e Scozia, sosteneva Clemente VII; l’altra con l’imperatore
Carlo IV che per tradizione non poteva che essere legato a Roma, con Germania,
Fiandre, Polonia, Boemia, Ungheria (in quanto il re ungherese era nemico di
Giovanna di Napoli), con gli altri stati italiani e il Portogallo, sosteneva
Urbano VI.
Ciascuna
delle due parti considerava l’altra scomunicata, blasfema, con battezzati, sposati e moribondi,
considerati in stato di peccato mortale perché i sacramenti erano stati
somministrati dai rispettivi ecclesiastici scomunicati.
Le
due corti papali, trovandosi di fronte ad entrate dimezzate, non fecero altro
che incrementare ciascuna i propri introiti aumentando i balzelli, per cui
simonia, nepotismo e favoritismi aumentarono a dismisura.
Quando
Urbano VI morì (1389), i quattordici cardinali rimasti a Roma
continuarono ad eleggere i papi che si avvicendarono con: bonifacio ix (1389-1404), innocenzo vii (1404-1406) e gregorio xii (1406-dep.1415).
Ad
Avignone, morto Clemente VII (1394), fu eletto un papa spagnolo (Pietro de
Luna) che prese il nome di B pbenedetto xiii (1394-1424),
il quale si dimostrò propenso ad abbandonare il soglio papale se
Gregorio XII avesse fatto altrettanto.
Alcuni
cardinali fedeli a Gregorio XII lo abbandonarono, chiedendo un concilio
generale, mentre il re di Francia minacciava il papa Benedetto, invitandolo a
ritirarsi. Benedetto XIII se ne fuggì in Spagna. I suoi cardinali,
riunitisi a quelli che avevano abbandonato Gregorio XII, decisero per un
concilio da tenersi a pisa, per
eleggere un papa unico e gradito a tutti., ma questo servì solo a
complicare ulteriormente la situazione
1) Clemente V (Bertrand
de Goth 1305-1314) ); Giovanni XXII (Jaques d’Eux 1316-1334);
Benedetto XII (Jaque Fournier
1334-1342); Clemente VI (Pierre Roger,
1342-1352); Innocenzo VI (Stephan Aubert
1352-1362); Urbano V (Guillaume de Grimoard, 1362-1370); Gregorio XI (Pierre-Roger
de Beaufort, 1370-1378).
IL MOVIMENTO CONCILIARE:
MARSILIO DA PADOVA
E GUGLIELMO DI OCKHAM
D |
iversi
filosofi e teologi da lungo tempo si erano dichiarati per un movimento
conciliare, per contrastare l’identificazione della Chiesa con il suo
clero. Tra costoro si levarono le voci di Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham.
marsilio da padova
(1280 c.a-1343), con una cultura scientifica (aveva studiato scienza naturale e
si era addottorato in medicina), aveva insegnato teologia a Parigi.
Marsilio,
che si era occupato di politica e della materia ecclesiastica, distingueva una
legge umana ed una divina il cui giudice poteva essere solo Cristo. Egli fu il
primo a sostenere l’origine naturale dello Stato contro l’idea
medievale dell’origine divina dell’Impero, con la conseguenza della
subordinazione della Chiesa allo Stato.
Marsilio
negava quindi il primato del pontefice spogliandolo del potere
dell’autorità divina. Egli negava anche che vi fosse una qualsiasi
differenza tra l’autorità del papa e i singoli vescovi che, come i
preti, sono eletti dal popolo per amministrare i sacramenti ed esercitare il
ministero delle sacre scritture.
Marsilio
sottoponeva inoltre l’autorità del papa a un concilio generale che
rappresentava la summa della saggezza della cristianità e il supremo
potere ecclesiastico.
Al
concilio al quale avrebbero dovuto partecipare oltre agli ecclsiastici,
anche rappresentanti laici scelti
dal popolo, sarebbe spettata anche ogni decisione relativa alla
disciplina dei costumi e alla interpretazione della verità della fede e
sulla definizione dell’eresia.
In
ogni caso, al concilio non spettava alcun potere coercitivo, in quanto,
sosteneva, in materia di fede questa non può subire coartazioni,
né può imporre alcuna verità o una legge cristiana, che
può avere una sua validità solo se accettata liberamente.
Naturalmente fu considerato eretico dalla Chiesa che non lo processò
solo perché nel frattempo moriva di una morte avvolta nel mistero.
guglielmo di ockam
(1290 c.a-1350), francescano, aveva legittimato la deposizione di Giovanni
XXII, sostenendo i diritti dell’impero nei confronti del papato. Egli
riteneva che l’autorità dell’impero derivasse dalla
volontà del popolo romano, passata poi ai greci-bizantini,
ai franchi ed ai tedeschi. Essa era quindi storicamente precedente
all’autorità del papa.
Ockam
riteneva che l’autorità dell’imperatore (Ludovico il Bavaro) fosse superiore a quella del papa che era
sì, nominato dai cardinali, ma l’imperatore poteva intervenire
nella sua elezione avendo anche la possibilità di dichiararlo eretico,
e, ove si fosse reso necessario, deporlo e sostituirlo.
Quanto
all’autorità suprema della Chiesa, Ockham
riteneva che essa non risiedesse nella persona del pontefice, ma
nell’assemblea conciliare e che
Le
idee di Ockham, diffuse nelle università
germaniche, ebbero influsso sui teologi cattolici, tra i quali Lutero, e il
movimento conciliare diede i suoi frutti perché di concili ne furono
convocati quattro.
I CONCILI DI
PISA, COSTANZA,
BASILEA E FIRENZE
I |
l
primo fu il concilio di
pisa (1409) - con una novità inaudita - fu indetto dai
soli cardinali. I due papi, Benedetto XIII e Gregorio XII che protestarono,
furono invitati a presentarsi, ma nessuno dei due si presentò. Il
Concilio li dichiarò scismatici ed eretici e deponendo entrambi eleggeva un terzo
papa, il vegliardo e umile settantenne Pietro Filargo
(Pètro Philargès),
non francese né italiano ma nato
nell’isola di Candia sotto la
dominazione di Venezia che prese il nome di alessandro v
(1340-1410).
Conduceva
vita misera tanto che il pontificato sembrava riportato alle origini del
cristianesimo. Di se stesso soleva dire: “da vescovo ero ricco, da
cardinale ero povero, da papa sono un mendicante”. Si impegnò a
convocare un altro Concilio entro il 1412. Il concilio di pisa che comunque si chiuse con tre papi
invece di due.
Alessandro
V moriva (1410) e fu designato il cardinale Baldassarre Cossa
che prese il nome di giovanni
xxiii (1410-1415). Era stato vicario del papa
a Bologna, dove aveva governato come guerriero e stupratore, più che
come ecclesiastico: da giovane aveva fatto anche il pirata. Oltre ad aver
stuprato (si diceva, con l’aiuto del suo segretario) duecento donne tra
vergini, monache e vedove, aveva imposto qualsiasi genere di balzelli, anche
sulla prostituzione, gioco d’azzardo e usura.
Giovanni
XXIII a seguito delle numerose e pressanti richieste di convocare un Concilio,
lo convocò a Roma (1412), ma questo non si potette tenere a causa
dell’invasione della città da parte di Ladislao d’Angiò, re Napoli (scomunicato da Alessandro V).
Il
nuovo Concilio si tenne a costanza
(1414), che si poteva considerare il
più importante, dopo il Concilio di Nicea (325), e fu una specie di
avvenimento mondano dell’epoca.
Vi
convennero oltre a cardinali (29), arcivescovi (33) vescovi (150) e preti
(4000), patriarchi e teologi (300); da Mosca giunse il metropolita di Kiev e una delegazione giunse da Bisanzio
(per sollecitare l’unione delle chiese); principi e nobili, ministri,
ambasciatori, delegati d’Università (14) con tutti i loro seguiti.
A Natale giunse anche l’imperatore Sigismondo d’Ungheria,
l’anima del Concilio, da poco incoronato ad Aquisgrana
re dei romani (in quel periodo, nell’omonimo lago affogarono ben
cinquecento persone).
La
decisione del Concilio fu grandiosa e rivoluzionaria: dopo tre anni di
trattative mise fine allo scisma ma non potè
realizzare la parte relativa
alla “unione (con
Il
Concilio stabiliva quindi, che il sinodo rappresentava la Chiesa militante, che
riceveva la sua autorità direttamente da Cristo; tutti, a qualsiasi
rango appartenessero, papa compreso, dovevano la loro obbedienza alle decisioni
del Concilio in materia di fede, per la fine dello scisma e per una generale
riforma della Chiesa, nel suo capo e nelle sue membra; dichiarava che se
qualcuno, compreso il papa, avesse rifiutato obbedienza alle sue decisioni,
avrebbe ricevuto la giusta punizione, e, se necessario, la punizione sarebbe
stata ottenuta con gli ordinari mezzi della giustizia.
Il
Concilio aveva preteso l’abdicazione dei tre papi, Gregorio XII,
Benedetto XIII e Giovanni XXIII. Quest’ultimo
che aveva promesso di abdicare, pensò bene di fuggire travestito da
contadino andando a mettersi sotto la protezione di Federico d’Austria a Sciaffusa, da dove ritrattò la promessa. Il Concilio
colse l’occasione di contestargli ben cinquantaquattro imputazioni tra le
quali quelle di pagano, oppressore, mentitore, simoniaco, traditore, dissoluto
e ladro, ma sedici di queste imputazioni furono eliminate perché troppo
gravi, e quindi fu deposto.
Gregorio
XII chiese gli fosse concesso, prima di ritirarsi, di convocare un proprio
concilio sotto la propria autorità. Questo concilio accettò la
sua rinuncia.
Benedetto
XIII, che aveva rifiutato di ritirarsi fu dichiarato scismatico ed eretico e fu
deposto. Si ritirò a Valencia dove morì a novant’anni,
considerandosi ancora papa.
Una
commissione di cardinali elesse il nuovo papa nella persona di Ottone Colonna,
unico papa della potente famiglia ghibellina, che prese il nome di martino v (1417-1431), riconosciuto da tutta la cristianità.
La sua incoronazione ebbe luogo a Costanza con una grandiosità
incomparabile, con l’imperatore Sigismondo e Federico di Brandeburgo che gli tenevano le briglie del cavallo,
preceduto da un palafreno ricoperto
da una gualdrappa scrlatta che portava la cattedra di
Pietro.
Martino
V provvide a riorganizzare
Alla
morte di Martino V (1431) fu eletto papa il veneziano Gabriele Condulmer col nome di eugenio iv
(1431-1447) il quale convocò il concilio a basilea (1431), già
stabilito da Martino V e presieduto dal cardinale Giuliano Cesarini.
Temi
del Concilio dovevano essere l’eresia
boema (v P.II, J.Hus),
Quanto
all’ eresia boema, il Concilio aveva ottenuto una pacificazione da cui era risultata avvantaggiata la
nobiltà che si era appropriata dei beni della Chiesa e questa aveva
accettato la spoliazione come prezzo della riconciliazione.
Circa
l’altro tema della riforma
della chiesa il Concilio sulla base delle
decisioni del precedente Concilio di Costanza, si era mostrato disposto a
sostituire la forma monarchica con l’ordinamento conciliare. Il Concilio
inoltre, molto energicamente, proclamava la superiorità del Concilio sul
papa, cercando di sventare i tentativi d’Eugenio IV di sciogliere
l’assemblea. Provvide quindi a sopprimere gli abusi finanziari della
curia, ad emendare i costumi del clero, ad imporre la residenza ai dignitari
ecclesiastici, a combattere la simonia ed a vietare il cumulo dei benefici.
Tutti questi provvedimenti, oltre alla diffidenza nei confronti del papa,
portarono in seno al Concilio dei disaccordi di cui Eugenio IV, per sbloccare
la situazione seppe approfittare.
Eugenio
IV infatti, convocò subito un concilio a ferrara, lanciando un
appello ai padri cristiani, che in parte aderirono. Erano arrivati da
Costantinopoli sbarcando a Venezia (1438) l’imperatore giovanni viii paleologo accompagnato dal fratello Demetrio, dal patriarca
Giuseppe e i vescovi Marco di Efeso, Bessarione di
Nicea, il metropolita russo Isidoro di Kiev, Doroteo
di Mitilene e un gran numero di teologi e di dottori
fra cui il celebre Giorgio Gemisto detto Pletone, con
il suo allievo Bessarione, per chiedere aiuto contro
i turchi, richiesta barattata con l’unione delle due Chiese che
comportava il riconoscimento della supremazia del papa.
I
rappresentanti delle due chiese incominciarono con discussioni teologiche
interminabili (sull’mmancabile Filioque (v. in Schede: La chiesa ortodossa) sullo Spirito
Santo, sul Purgatorio, sull’Eucaristia e particolarmente sul primato del
pontefice). A queste discussioni assisteva l’imperatore il quale,
desideroso di giungere a una soluzione
(gli premeva la crociata contro i turchi) cercò subito di
abbreviarle.
Finalmente
nel Duomo di Firenze (dove il
Concilio si era trasferito dal mese di gennaio) l’imperatore (il 6 luglio
1439) con tutti gli altri prelati greci, s’inginocchiò davanti al
papa che proclamava così la riunificazione (i testi dell’unione
furono letti da Bessarione in greco e da Cesarini in latino). All’unione aderirono anche le
altre comunità degli Armeni, giacobiti, serbo-russi, maroniti e nestoriani
(v in Schede: Scismi e riti nelle chiese orientali), Bessarione
e Isidoro di Kiev ricevettero il cappello
cardinalizio (e furono gli unici che, anche in seguito, continuarono a
perseguire l’idea della unificazione)
L’unione
durò solo fino al rientro dell’imperatore e della delegazione a
Costantinopoli, dove Giovanni VIII fu accolto con ingiurie sia da parte del
popolo, sia da parte del clero, che piuttosto che sottomettersi al papa
sarebbero satati disposti a passare sotto il dominio
dei turchi.
Nel
momento della sottoscrizione dell’atto di unione, il patriarca
Giuseppe moriva e il clero ortodosso di S. Sofia eleggeva
patriarca Metrofane, vescovo di Cizico,
contrario all’unione.
Gli
oppositori alla unione rimasti a Basilea cercarono di forzare gli avvenimenti
deponendo Eugenio IV (1439) e nominando un altro papa nella persona del duca
Amedeo VIII di Savoia che prese il nome di felice v. Si
presentava un altro scisma. Nessuno però in Europa, prese sul serio
questa nomina. Felice V infatti ebbe l’accortezza di abdicare e il
Concilio di Basilea si sciolse (1439).
Chiusa
la fase dei Concili e il periodo di crisi del Papato, non essendosi potute
realizzare le aspirazioni egemoniche della Chiesa, i papi si rivolsero alla
stabilizzazione dello Stato pontificio diventando essi stessi principi con
caratteristiche laiche e politiche. Si avvicinavano i tempi dei grandi papi umanisti e
rinascimentali.
Estratto dall’Atlante Storico De Agostini
“VARNA”
Q |
uesta
crociata aveva avuto una connotazione diversa dal/le otto crociate precedenti (1096-1270,
esclusa la quarta -1202-1204 - finita col saccheggio di Costantinopoli) dirette
alla liberazione del santo sepolcro e durante le quali i cristiani avevano
combattuto contro gli arabi.
Se
pur chiamata crociata questa di Varna mirava innanzitutto a combattere i nuovi
nemici, i
turchi,
che avevano sostituito gli arabi e salvare ciò che rimaneva
dell’impero bizantino con la liberazione di Costantinopoli (non ancora
occupata) dalla morsa stringente dei turchi e scongiurare la paura dei turchi
che minacciavano l’Occidente cristiano.
La
crociata era vista come una guerra liberatrice, del tutto illusoria in quanto
mirava alla cacciata dei turchi da tutti i territori da essi occupati
(cioè da tutti i paesi balcanici, buona parte
della Grecia compresa), spingendoli in Anatolia, la moderna Turchia, vale a
dire in quei territori dove i turchi sarebbero stati relegati solo dopo circa
cinquecento anni, in seguito del
disfacimento dell’impero ottomano.
L’impresa
era materialmente e umanamente impossibile (se non fosse intervenuta la mano di
Dio, che normalmente lascia che gli uomini seguano il loro destino)
perché occorreva un grosso esercito con grande spiegamento di forze e di
mezzi e soprattutto una unità
di intenti, impensabile, in quanto i vari principi e monarchi di Stati
piccoli o grandi pensavano solo, come vedremo, ai propri specifici interessi
economici e alla salvaguardia dei propri territori, con l’aggiunta delle
riserve mentali di conquistare altri territori, anche a scapito degli stessi
alleati del momento.
Di
questa crociata, come abbiamo visto, se ne era reso promotore il papa Eugenio IV (sulla base
dell’idea del suo predecessore Martino V di cui egli era stato
collaboratore), attraverso il suo legato Giuliano Cesarini
che vedremo lavorare intensamente per la sua realizzazione, fino al sacrificio
della propria vita.
Cesarini
presiedeva il Concilio di Basilea e si era espresso chiaramente sulla questione
quando aveva ricevuto la delegazione greca (1434) con la quale invitava “reges, duces, princepes” a liberare
L’unico
mezzo per respingere i turchi era l’unione delle due Chiese. Eugenio IV
come abbiamo detto, continuava l’opera del suo predecessore Martino V,
avendo preso parte alle trattative con i greci e proprio da queste trattative
era scaturita una convenzione
(1430) con la quale
Fin
dal 1437 il papa aveva auspicato l’adesione degli ungheresi alla
crociata. sollecitando Alberto d’Asburgo che veniva in quel tempo
incoronato re d’Ungheria, esortandolo a difendere i fedeli dalla
oppressione degli infedeli (ad defendendos fideles ab oppressionibus infidelium). Ma sin dalle prime battute era evidente
che la crociata si sarrebbe rivelata un fallimento.
Quando
infatti l’imperatore Giovanni VIII aveva preannunciato la sua partenza
per partecipare al Concilio di Ferrara, già si lamentava di non aver
ricevuto le spese per il suo viaggio e i mezzi per la difesa di Costantinopoli
che il papa gli aveva promesso.
Poiché
i veneziani avevano ammonito il Concilio di non provocare scismi (con i greci)
in quanto i cristiani (cioè loro!) erano in “magno periculo” e da uno scisma
sarebbero risultati indeboliti, il papa da questa richiesta aveva ritenuto
poter fare affidamento sulla potenza marinara della repubblica, oltre che
sull’aiuto finanziario dei fiorentini.
Ambdue le
repubbliche erano impegnate nella lotta contro l’espnsionismo
visconteo e avevano interesse a mantenere nell’alleanza il papa, contro
Filippo Maria Visconti in fase di conquiste
territoriali (v. P. IV, il Ducato di Milano).
Durante
le riunioni del Concilio di Ferrara, Eugenio provvedeva a raccogliere il denaro
per la difesa di Costantinopoli in quanto correva voce che i turchi che
temevano l’Unione, avessero intenzione di conquistare Costantinopoli.
L’Unione
delle Chiese, come abbiamo visto, ebbe luogo a Firenze e il papa aveva dato
notizia ad Alberto II d’Asburgo, re d’Ungheria, al duca
d’Austria Federico III e a tutti i principi tedeschi, della sottomissione dei greci, come
prima delle conquiste della Chiesa cattolica (che
avrebbero
portato in ultimo, secondo le speranze, alla conversione dei turchi!)
Dal
momento della unificazione aveva inizio lo stillicidio delle promesse
continuamente procrastinate. Il papa si impegnava con Giovanni VIII a fargli
avere “entro il marzo prossimo”
(1440) dieci galee armate che si sarebbero trattenute per un anno (o venti
galee per sei mesi), oltre a denaro per assoldare milizie terrestri, e si
impegnava anche a far pressione sull’imperatore Sigismondo, sul re
d’Ungheria, Alberto d’Asburgo e presso il principe dell’Albania,
Araniti Thopia Golem, per scendere in campo contro i turchi.
Queste
sostanziose quanto improbabili promesse dovevano scontrarsi con la
realtà, in quanto, Alberto II nel frattempo moriva e le lotte in
Ungheria rendevano difficile la partecipazione di un esercito ungherese alla
crociata. In Ungheria era infatti scoppiata una guerra tra le due fazioni, una
favorevole agli Asburgo e l’altra a Vladislao (o Ladislao 1420-1444) III Jagellone, re di Polonia (dal 1434 al 1444).
Essendo
morto Alberto d’Asburgo (1439) gli ungheresi offrivano la corona al
ventenne Vladislao (1440), ma la vedova di Alberto, Elisabetta, aspettava un
bambino e gli ungheresi non volevano aspettare la nascita in quanto c’era
da fronteggiare il pericolo turco e volevano un monarca che fosse in grado di
affrontarlo. Per questo scoppiava una guerra civile (1440) che frustrava le
aspettative del papa.
Eugenio
IV nominava (1442) Giuliano Cesarini suo legato in Ungheria, Polonia, Boemia e Austria,
con l’incarico di concludere la pace tra Vladislao ed Elisabetta,
nominando anche il vescovo Cristoforo Garantoni per i
confini dell’Ungheria: Lituania, Moldavia,
Valacchia, e Albania.
Per
non parlare delle lotte che avvenivano in Italia che non consentivano di
inviare gli aiuti promessi all’imperatore Giovanni VIII: lo stesso papa
Eugenio IV aveva problemi col regno di Napoli, avendo dato in un primo momento
il suo appoggio a Renato d’Angiò per la
conquista del regno contro Alfonso I d’Aragona alleato di Visconti.
Nel
frattempo a Bisanzio la situazione si faceva
più critica in quanto Demetrio, sospettando di essere escluso dalla
successione del fratello Giovanni
VIII, si era rivolto direttamente
ai turchi dai quali aveva ottenuto truppe e con queste si era presentato (1442)
sotto le mura di Costantinopoli.
Giovanni
VIII chiedeva aiuto direttamente ai veneziani i quali non volendosi impegnare
risposero che erano in attesa delle decisioni del pontefice.
Nel
frattempo, il despota della Morea Costantino Dragases, che si stava recando a Costantinopoli assediata,
per portare il suo aiuto, era stato bloccato dai turchi a Lemmo, ma fu liberato
questa volta dalle galee veneziane che lo trasportarono a Costantinopoli da
dove però le truppe turche si erano allontanate per aver subito una sconfitta
in Transilvania.
A
Basilea, come abbiamo visto, era stato eletto l’antipapa Felice V e in
seno al Concilio si erano formati due partiti, uno appoggiava Elisabetta col
figlio Ladislao detto Postumo, e l’altro parteggiava per Vladislao Jagellone. Tra l’altro i sostenitori ungheresi di quest’ultimo parteggiavano per Eugenio IV.
Il Cesarini iniziava l’opera di mediazione tra Asburgo e
Jagellone. In questo periodo il comandante Giovanni Hunyadi riportava vittorie sugli ungheresi costringendo il
voivoda di Valacchia, Vlad Dracul
(v. in Specchio dell’Epoca: Vampiri), sottomesso ai turchi, a riconoscere
la sovranità ungherese.
Nel
1443 il papa Eugenio lamentando in una bolla la situazione dell’Est, con
Questa
volta il cambiamento era avvenuto in Italia dove era stata appena firmata
(1443)
Veneziani
e fiorentini dai quali Eugenio si aspettava aiuti, con l’appoggio da lui
dato ora al Visconti, vedevano rompersi l’equilibrio raggiunto a Cremona.
Francesco
Sforza si trovava contro: Filippo Maria Visconti, Niccolò Piccinino
(che si era impadronito di Bologna), Alfonso d’Aragona e il papa.
Ma
nessuna posizione era quella definitiva! Francesco Sforza infatti si era
accordato con Alfonso d’Aragona al quale aveva promesso tutti i territori
che avrebbe tolto al papa; a sua volta Francesco riceveva profferte
dall’antipapa Felice V, al quale Francesco prometteva che avrebbe
occupato Roma e gli stati della Chiesa e avrebbe arrestato il papa, assicurando
anche l’adesione di Venezia, Firenze e Genova alla sua parte conciliare.
La
situazione cambiava ad ogni piè sospinto. Alfonso I si era impadronito
di Napoli (1442) a danno di Renato d’Angiò
ed Eugenio pensò bene di trattare con Alfonso al quale prometteva
l’investitura (argomento sempre persuasivo con chi intendeva impadronirsi
di un reame); in cambio Alfonso oltre che a riconoscere l’autorità
del papa, si impegnava a inviare sei galee o triremi
armate nell’Ellesponto o in quel luogo che sarebbe stato indicato dal
papa, e a combattere contro Francesco Sforza, mettendo a disposizione anche
quattromila cavalli e mille fantoccini (accordi di Terracina).
Si
giunse al maggio 1443 e il pontefice continuava a fare appello alla crociata ai
veneziani, che intrattenendo buoni
rapporti con i turchi e consapevoli della circostanza che, sia
l’esercito ungherese, sia la
flotta cristiana non erano pronti, subordinarono la loro adesione “alla pacificazione dell’Italia”
e si offrivano anche come mediatori tra il papa e Francesco Sforza, precisando
che “senza questa pacificazione non
avrebbero messo a disposizione la flotta”.
A
seguito di trattative il papa e i veneziani raggiunsero (per ora)
l’accordo sul numero delle galee armate, che sarebbero state da sedici a
venti, di cui dieci sarebbero state armate a spese del papa. Con quale denaro?
Con le decime che il papa avrebbe imposto al clero fiorentino e veneziano!
Su
questo disegno del papa i veneziani evidentemente non si mostrarono
d’accordo, dal momento, essi sostennero, che l’impresa andava a
beneficio di tutta la cristianità. Alla fine però i veneziani
cedettero sulle decime ponendo la condizione che una volta raccolte (sapendo
che molto spesso, raccolte per un motivo, venivano impiegate per altri)
fossero, con impegno del papa, destinate esclusivamente all’armamento
della flotta…“possibilmente
depositandolo presso le nostre Procuratie”!
In
ogni caso per i veneziani rimaneva prioritaria la questione della pacificazione
in Italia.
Il
papa in questo periodo risiedeva a Siena da dove partivano e arrivavano tutte
le ambascerie, e da qui era partita quella del nipote Francesco Condulmer per raccogliere il denaro, passando prima da
Firenze per giungere poi a Venezia…senza però portare il denaro
sperato, con meraviglia dei veneziani che commentarono appunto “nulla secum ferens pecunia”.
Il
papa, visto che Venezia non si muoveva senza aver visto il denaro, si rivolgeva
a Genova, ma quel doge rispose di essere ben
disposto all’impresa, che purtroppo la situazione interna era difficile e
minacciata da molte turbolenze interne (vi era anche lo stesso sottaciuto
motivo dei veneziani: quello di non urtare i turchi con i quali correvano
intensi rapporti commerciali).
Eugenio
dovette quindi ripiegare su Alfonso d’Aragona ora divenuto suo alleato,
il quale, sempre a parole, dava assicurazioni sulla sua buona disposizione per la spedizione contro i turchi.
Insomma,
mentre il papa riceveva solo promesse, nel settembre del 1443 l’esercito
ungherese attraversava il Danubio, e mentre Cesarini
riferiva ai veneziani dei suoi sforzi e dei risultati ottenuti in Ungheria con
la partenza dell’esercito, i veneziani si mostravano in proposito molto
scettici, rispondendogli che non
intravedevano nessuna speranza nei risultati dell’armata (non videmus de ea armata spem fore habendam),
e ciò perché essi ritenevano che la flotta che avrebbe dovuto
appoggiare l’esercito, avrebbe già dovuto trovarsi ai Dardanelli
dal mese di maggio, com’era stato stabilito.
L’esercito
ungherese era formato da venticinquemila uomini con a capo Vladislao III, al
comando di Giovanni Corvino Hunyadi, dei quali circa
ottomila serbi di Giorgio Brankovic, despota della
Serbia spodestato dai turchi.
Raggiunta Belgrado l’esercito si dirigeva verso Adrianopoli, capitale dei turchi con i quali si scontrarono
a Niś (3 novembre)
entrando in Bulgaria e occupando Sofia.
L’inverno impedì all’esercito di
proseguire per Adrianopoli, nonostante la vittoria
conseguita a Zlatiza. Verso la seconda metà di
dicembre l’esercito prese la via del ritorno, inseguito dai turchi che
furono nuovamente sconfitti a Cunoviza. Nel febbraio
(1444) l’esercito rientrava a Buda.
E’ chiaro che durante questi avvenimenti sarebbe
stato necessario che il papa e i veneziani prestassero il loro più
tangibile aiuto e collaborazione, ma il papa si limitò a mandare un
legato da Vladislao per congratularsi per la vittoria, mentre i veneziani
aspettavano il denaro!
Costoro, pur avendo una flotta nel Golfo, che avrebbe
dovuto congiungersi con l’esercito,
diedero disposizioni al comandante della flotta Luca Zorzi,
di incrociare nelle acque della Dalmazia (dove avevano i loro interessi), e di
non allontanarsi se non per combattere i pirati.
Essi
erano sospettosi di Alfonso d’Aragona ora alleato del papa (per eventuali
mire del re sulla Dalmazia), che
gli concedeva di incassare le decime raccolte da una bolla che imponeva al
clero dei regni d’Aragona e di Napoli per l’ammontare di
duecentomila fiorini, e che sarebbero serviti “per la repressione dei nemici della chiesa” (quindi non solo
contro i turchi ma contro l’altro attuale nemico Francesco Sforza, come
conveniva ad Alfonso); Eugenio imponeva anche le decime ai fiorentini per
ventimila fiorini, e, dal momento che si trovava a Siena, anche al clero
senese.
Soltanto
nel mese di marzo (1444), su interessamento di Cesarini
i veneziani ottenero dalla corte ungherese oltre al
denaro la promessa di concessioni territoriali (avrebbero avuto in custodia le
basi di Gallipoli sui Dardanelli e Salonicco), gli unici argomenti concreti che
gli fecero svanire tutte le indecisioni che li avevano trattenuti dal prendere
iniziative.
Ma
anche in questa occasione insorsero dissensi col papa in quanto, mentre i
veneziani intendevano limitare l’azione della flotta allo stetto di Gallipoli e quindi limitare l’azione alla
occupazione di Gallipoli e Salonicco, il papa riteneva che al termine di questa
azione, essi, diversamente dai precedenti accordi, dovessero portare aiuto a
Rodi, dei cavalieri di s. Giovanni, minacciata dall’Egitto.
Ma
toccava un argomento poco gradito ai veneziani per i quali tutti i traffici con
l’oriente passavano dall’Egitto ed essi non volevano entrare in
conflitto con quel sultano. Essi diedero quindi precise istruzioni al loro
comandante Alvise Loredan, di attenersi agli accordi
precedentemente presi col pontefice, di non attaccare in nessun modo navi
egiziane e se le avesse incrociate, doveva evitarle.
Inutile
fu anche la richiesta di inviare la flotta sul Danubio presso Nicopoli, per facilitare il passaggio all’esercito
ungherese. I veneziani, sebbene pagati, facevano solo ciò che rientrava
nei loro interessi.
Finalmente
le navi incominciarono a partire (otto galee veneziane erano già in
mare, le altre otto presero il largo da Venezia, seguite da altre quattro
pagate dal duca di Borgogna), e il denaro cominciava ad affluire a Venezia,
mentre l’esercito ungherese iniziava a rientrare in patria (febbr.’44).
Il
parlamento di Buda non votò invece il rinnovo
della spedizione in quanto riteneva che il paese non fosse - al momento -
minacciato dai turchi, e inoltre vi erano problemi di riorganizzazione del
regno (con Federico III col quale Cesarini ottenne
una tregua biennale). Anche Brankovic era ora
contrario alla guerra, in quanto aveva avuto dal sultano proposte di pace, con
restituzione della Serbia.
Il
trattato con Vladislao veniva firmato ad Adrianopoli
con cui si concordava: la restituzione della Serbia col pagamento di una somma
notevole da parte del sultano; la promessa di quest’ultimo
di un aiuto alla Polonia di venticinquemila soldati in caso di qualsiasi
necessità; la liberazione del
voivoda Dracul di Valacchia alla sottomissione
alla Sublime Porta.
In
tutti questi accordi Costantinopoli rimaneva esclusa (è chiaro che anche
Vladislao si era mosso col suo esercito per proprio tornaconto), nonostante le
preghiere di Giovanni VIII direttamente a Vladislao, e nonostante quest’ultimo continuasse a manifestare la sua
volontà di guerra al papa, mentre al sultano confermava la
validità del trattato, ma ruppe gli accordi non appena avuta notizia di
uno spostamento di truppe da parte di Murad in
Anatolia.
Nel
mese di settembre l’esercito ungherese riattraversava il Danubio per
dirigersi nuovamente verso Adrianopoli e raggiungere Costantinopooli.
Questa
volta l’esercito era composto da ventimila soldati, compresi quattromila valacchi di Dracul, mentre le
forze turche erano di sette-ottomila uomini in quanto
altre forze erano impegnate in Anatolia, Peloponneso e Albania.
La
sconfitta di Varna (10 nov.), fu determinata dal mancato coordinamento della flotta veneziana con
l’esercito ungherese; la flotta cioè avrebbe dovuto tagliare la
strada al rientro di Murad, mentre invece se ne era
rimasta ai Dardanelli. Murad dall’Anatolia
aveva passato il Bosforo (probabilmente con l’aiuto dei genovesi), col
risultato che ora le truppe ottomane erano superiori alle forze ungheresi.
Lo
scontro si trasformò in una carneficina per ambedue le parti; la
battaglia fu incerta fino a quando non furono uccisi Vladislao e il cardinale Cesarini, rivolgendosi in favore dei turchi che misero in fuga gli ungheresi durante
la notte.
Cessavano
in questa maniera sanguinosa e ingloriosa le aspirazioni del papa Eugenio IV il
quale rivolse le sue attenzioni nei confronti dell’isola di Rodi sotto le
mire dei mamelucchi egiziani, che aveva già
subito numerosi attacchi (1434,’40,’43 e ’44).
Eugenio
voleva che fosse la stessa flotta a provvedere alla difesa ma vi fu
l’opposizione dei venezani che non intendevano
in alcun modo incrinare i rapporti con gli egiziani. Eugenio si rivolse quindi
ai genovesi perché armassero a sue spese delle navi da mandare a Rodi,
ma i veneziani posero la condizione che le galee (nel numero di quattro)
potevano essere costruite a Genova, ma dovevano essere armate altrove (!).
Eugenio
che non si rassegnava e continuava a fomentare la guerra, fece sapere questa
volta che dopo Rodi la flotta doveva aprirsi la strada per
Si rivolgeva
ancora ai veneziani chiedendo aiuto per Rodi, ma essi risposero come già
avevano fatto in precedenza, che la guerra contro i turchi doveva limitarsi
alla salvaguardia della cristianità, e per la difesa dell’isola
non occorreva una flotta ma erano
sufficienti solo uomini affidati a un buon capitano.
Gli
egiziani nel frattempo allentavano la morsa sull’isola (che sarà
conquistata dai turchi nel 1522 e i Cavalieri si trasferiranno a Malta), e
poiché da parte degli ungheresi non vennero prese altre iniziative,
Eugenio finalmente mise da parte le sue velleità per la crociata e non
prenderà altre iniziative fino alla sua morte che avverrà dopo
tre anni (1447).
L’idea
della crociata non finirà con Eugenio IV ma sarà ripresa (lo
vedremo negli articoli sull’Impero bizantino) da un altro papa, Pio II
(Enea Silvio Piccolomini), con una crociata, questa
volta c.d. fantasma.
FRA’
GEROLAMO
SAVONAROLA
“Mentre la fiamma feroce o Gerolamo,
si
nutriva delle tue membra,
la
religione, straziate le chiome,
pianse e
disse: Fiamme crudeli,
risparmiatelo,
in questo rogo ci sono
le nostre
viscere”
F
|
Dopo aver seguito gli studi teologici, aveva
iniziato la predicazione (1481-82), piuttosto rozza e accompagnata da
gestualità violenta che non suscitava alcun interesse o entusiasmo,
tanto da fargli persdere la fiducia in se stesso.
Sin dalle prediche dei primi anni passati a
S. Gimignano (1485-86), aveva preannunciato i princìpi fondamentali che costituiranno la base di
tutta la sua futura predicazione, cioè la necessità di un castigo
e di un rinnovamento per
Dopo aver predicato in diverse città (Bologna,
Ferrara, Brescia) tornava a Firenze e dal pulpito di S. Maria
in Fiore, la sua oratoria era divenuta viva, trascinante, millenarista e carica
di profezie e di imminenti castighi divini, da far scoppiare in lacrime il pubblico sempre sensibile
a questi temi.
La predicazione infuocata, con visioni
apocalittiche, era fatta di presagi e sventure fra cui l’arrivo di un
flagello: “Popolo fiorentino, io dico ai cattivi: Tu
sai che dai peccati vengono le
avversità. Va, leggi: quando il popolo ebreo faceva bene ed era amico di
Dio, sempre otteneva bene; al contrario quando si metteva alle scelleratezze,
Dio apparecchiava il flagello. Firenze, che hai fatto tu, che hai tu commesso? Come ti trovi con
Dio? Vuoi che te lo dica? Ohimè è pieno
il sacco: la tua malizia ha raggiunto il colmo. Firenze, aspetta, aspetta un
gran flagello. Signore, tu mi sei testimonio, che coi fratelli mi sono sforzato
di sostenre con le orazioni questa piena e questa
rovina: non se ne può più. Abbiamo pregato, Signore, che almeno
converta tale flagello in pestilenza: se abbiamo o no impetrato la grazia, tu
te ne ravvederai.”
Questa idea del flagello ripetuta in altre
prediche, era stata presa come presagio della venuta di Carlo VIII e gli aveva
fatto attribuire la fama di profeta.
S
|
G
|
I
|
Nell’agosto successivo a Torino veniva
concluso un accordo tra Carlo VIII e la città di Firenze che aveva fatto
infuriare il papa che, come detto, intravedeva la possibilità di un ritorno in
Italia del monarca francese.
Nel settembre il papa inviava a Firenze un
secondo “breve”, questa volta
erroneamente (e deliberatamente) fatto consegnare al Priore del convento
dei francescani di Santa Croce, invece che a lui, Priore dei domenicani di San
Marco, col risultato che i francescani avevano propalato tutti i particolari
della lettera, prima che essa fosse conosciuta dai domenicani.
Nel “breve” si parlava delle
novità eretiche diffuse dal Savonarola e si demandava la causa e ogni
potere disciplinare al Vicario generale della Congregazione lombarda di
Brescia, frà Sebastiano Maggi.
Il documento dopo essere stato letto, e come accennato, diffuso dai frencescani, fu consegnato ai domenicani.
I frati più vicini a Savonarola, frà Domenico da Pescia, frà Tommaso Busini e frà Silvestro Manuffi,
venivano trasferiti al convento di Bologna con l’avvertimento che ogni
disobbedienza sarebbe stata punita con la scomunica.
VERSO
A
|
Sebbene fossero stati emanati quattro bandi
da parte della Signoria intesi ad evitare tumulti, è ormai notte, gli
Arrabbiati si recano a s. Marco e accatastano alle porte delle fascine, alcuni
riescono ad entrare nei chiostri; i frati reagiscono e armati di croci
colpiscono gli aggressori, in chiesa un frate tedesco “bello e
giovane”, che era riuscito ad impadronirsi di un archibugio, salito sul
pulpito spara sui rivoltosi con l’invocanzione:
“Signore, salva il tuo popolo”
(Salva populum tuum, Domine).
Giungono le truppe e il comandante chiede la consegna del Priore pur non
avendo alcun mandato, che manda a richiedere alla Signoria; quando giungono i
mazzieri i tre frati vengono portati via in catene accolti dalla folla con
sputi e urla di odio; Gerolamo durante il percorso viene colpito varie volte
dagli stessi soldati.
I frati Gerolamo, Domenico e Silvestro
vengono chiusi in prigione. L’11 aprile
Le risposte che dà sono tali da non poter ricavare nessun
atto di accusa. Sulle sue profezie: se vi
dirò di sì, non mi crederete, se vi dirò di no, io
dirò bugie; il notaio Ceccone, alla cui
presenza si svolgevano gli interrogatori, propone che nella redazione delle risposte, le
motivazioni date da Gerolamo siano trascritte in modo da diventare ammissioni
di doppiezza. A questo modo però
Torna alla carica il notaio per fargli
firmare due atti degli interrogatori; dopo averne preso visione Gerolamo lo
minaccia dicendogli che se li avesse pubblicati, sarebbe morto entro sei mesi:
egli comunque firma e la sua predizione si avvera. Il 19 sono letti in
Consiglio gli atti del processo; anche i frati del suo convento gli si
rivoltano contro: lo accusano di averli privati della libertà in quanto
tutte le decisioni venivano prese da lui e dagli altri due frati arrestati (frà Domenico Buonvicini e frà Silvestro Maruffi).
Essi scrivono anche al papa in cui sconfessando il loro Priore, chiedono
perdono di averlo seguito e pur scomunicati, di aver somministrato i
sacramenti.
La infame e ingiusta sentenza di morte viene
emessa il 22 maggio e viene letta ai condannati la sera dello stesso giorno;
dopo la cerimonia della privazione degli ordini sacri, la mattina del giorno
seguente i tre frati assistono alla messa e fanno la comunione con
l’ostia che Gerolamo passa agli altri due fratelli. I tre quindi vengono
portati sulla piazza dove era stato preparato il palco con le croci, i capestri
e le catene che dovevano legare i loro corpi e sostenerli dopo essere stati
impiccati, per essere bruciati.
Dopo l’esecuzione dei due frati
è il turno di Gerolamo al quale qualcuno dalla folla in silenzio, ma
carica di odio grida: Savonarola ora
è tempo di fare miracoli;
in quel momento il boia dà la spinta al corpo del frate,
accennando a un macabro passo di danza e lasciandosi sfuggire la catena con la quale
doveva avvolgere il corpo del frate, perché voleva prendersi la macabra
soddisfazione di bruciarlo quando egli era ancora in vita. Ma il frate muore e
il fuoco avvampa quando il boia era appena sceso dal palco, appiccato da un
nemico del frate che grida di aver finalmente bruciato il frate che voleva
bruciarlo.